15 luglio 2019 |
Le Sezioni unite sulla determinazione delle pene accessorie a seguito dell’intervento della Corte costituzionale in materia di bancarotta fraudolenta
Cass., Sez. un., sent. 28 febbraio 2019 (dep. 3 luglio 2019), n. 28910, Pres. Carcano, Est. Boni, ric. Suraci e altri
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1. Con la sentenza in commento le Sezioni unite della Cassazione hanno risolto una contrasto giurisprudenziale in tema di commisurazione da parte del giudice della durata delle pene accessorie temporanee, formulando il principio di diritto secondo cui «le pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all'art. 133 c.p.».
La Suprema Corte ha così chiarito come va calcolata la pena accessoria nei casi in cui la legge indichi esclusivamente un limite massimo di durata («fino a….») o una cornice edittale («da… a….»).
Secondo una prima tesi, in passato maggioritaria e avallata da un precedente arresto delle Sezioni unite del 2014[1], la pena accessoria dovrebbe in tali casi ritenersi non espressamente determinata dalla legge e andrebbe dunque automaticamente commisurata nella medesima entità della pena principale inflitta, in applicazione dell’art. 37 c.p., a tenore del quale «quando la legge stabilisce che la condanna importa una pena accessoria temporanea, e la durata di questa non è espressamente determinata, la pena accessoria ha una durata eguale a quella della pena principale inflitta, o che dovrebbe scontarsi, nel caso di conversione, per insolvibilità del condannato».
Nella sentenza in oggetto, tuttavia, le Sezioni unite accolgono l’opposta tesi della non applicabilità dell’art. 37 c.p., affermando che il giudice debba procedere ad un’autonoma commisurazione in concreto – ai sensi dell’art. 133 c.p. – della durata della pena accessoria, la quale potrà avere una durata diversa da quella della pena principale, purché contenuta entro i limiti fissati dalla norma di legge in relazione a quella specifica fattispecie.
Nel discostarsi dal proprio precedente del 2014, le Sezioni unite della Cassazione hanno così ritenuto di aderire all’interpretazione offerta nelle motivazioni della sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 2018[2], con cui era stato dichiarato parzialmente illegittimo l’art. 216 l. fall. (bancarotta fraudolenta), nella parte in cui predeterminava nella misura fissa di 10 anni la durata delle relative pene accessorie, anziché prevederne l’applicazione «fino a 10 anni»[3].
2. Nella sentenza n. 222 del 2018 della Corte costituzionale, la durata fissa pari a dieci anni delle pene accessorie è stata ritenuta incompatibile con i principi di proporzionalità (e dunque in contrasto con gli artt. 3 e 27 co. 3 Cost.) e di necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio (il quale impone che le pene possano essere calibrate dal giudice sulla situazione del singolo condannato, in attuazione non solo del mandato costituzionale di “personalità” della responsabilità penale di cui all’art. 27 co. 1 Cost., ma anche del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost.).
L’illegittimità costituzionale della disposizione impugnata consisteva non tanto in una carenza astratta di proporzionalità della durata decennale delle pene accessorie per tutte le ipotesi di bancarotta fraudolenta, bensì nel carattere fisso e indifferenziato di tale durata, che si traduceva nell’inflizione di pene accessorie manifestamente sproporzionate rispetto a quelle sole fattispecie concrete di bancarotta che, seppur caratterizzate da un disvalore relativamente più lieve, ricevevano il medesimo severo trattamento sanzionatorio.
Riscontrato tale vulnus costituzionale – persistente nonostante il monito lanciato dalla stessa Consulta al legislatore con la precedente pronuncia n. 134 del 2012, con la quale la medesima questione era stata ritenuta inammissibile – la Corte costituzionale ha sostituito la previsione della durata fissa decennale della pena accessoria con la previsione di un limite massimo: «fino a» dieci anni.
Nelle motivazioni della sentenza, la Consulta ha anche affermato – come si preciserà meglio di seguito – che tale soluzione non avrebbe determinato l’applicazione della regola di cui all’art. 37 c.p., bensì avrebbe consentito al giudice di «determinare, con valutazione caso per caso e disgiunta da quella che presiede alla commisurazione della pena detentiva, la durata delle pene accessorie previste dalla disposizione censurata, sulla base dei criteri indicati dall’art. 133 cod. pen.».
3. L’intervento della Corte costituzionale ha aperto le porte ad un contrasto giurisprudenziale che ha visto contrapporsi due orientamenti quanto agli effetti e alle modalità di reazione alla sentenza n. 222 del 2018.
3.1. Un primo indirizzo[4], in linea con il precedente arresto delle Sezioni unite del 2014 e favorevole all’applicazione della regola di cui all’art. 37 c.p., ha ritenuto che la pronuncia n. 222 del 2018 fosse vincolante solamente in relazione al suo dispositivo, e cioè in modo circoscritto al solo profilo della durata fissa delle pene accessorie di cui all’art. 216 l. fall., senza implicare necessariamente l’inapplicabilità alle medesime pene della regola generale di cui all'art. 37 c.p.
Inoltre si è osservato che la giurisprudenza di legittimità maggioritaria formatasi in relazione alle ipotesi delittuose di cui agli artt. 217 e 218 l. fall. – che determinano la durata delle pene accessorie con la medesima tecnica dell’indicazione di un solo limite massimo (fino a…) – riteneva che la durata delle pene accessorie ivi previste vada equiparata ex art. 37 c.p. a quella della pena principale, salvo restando il limite massimo indicato dalla stessa norma incriminatrice[5].
Ancora, si sosteneva che l’art. 216, u.c. nel testo modificato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 222 del 2018 non può considerarsi legge speciale da applicarsi in deroga all’art. 37 c.p.
Ad ulteriore conforto della tesi si osservava che sarebbe incongruente e foriera di possibili conseguenze pregiudizievoli in malam partem l’interpretazione che, sganciando la commisurazione della pena accessoria da quella della pena principale, finisca per consentire il superamento della durata della prima rispetto a quella della seconda;
Infine, veniva richiamata la soluzione conforme offerta dalle Sezioni unite della Corte di cassazione nella sentenza n. 6240 del 2014, seguita in modo quasi unanime dalla successiva giurisprudenza, per la quale rientrano nel novero delle pene accessorie di durata “non espressamente determinata dalla legge penale” (cui si applica dunque l’art. 37 c.p.) quelle per le quali sia previsto un minimo e un massimo edittale, ovvero uno soltanto di tali limiti, mentre ne sono escluse solo le pene accessorie perpetue e quelle temporanee stabilite in misura precisa dal legislatore. A sostegno di tale conclusione le Sezioni unite del 2014 adducevano i seguenti argomenti.
i) In primo luogo la Corte aveva osservato che – pur ancorandosi la pena accessoria a quella principale – risulterebbero rispettati i principi costituzionali della individualizzazione e della funzione rieducativa della pena, poiché di essi ha già tenuto conto il giudice di merito nell’applicare la pena principale e, di riflesso, quella accessoria.
ii) In secondo luogo, si osservava che la predeterminazione per legge della durata della pena accessoria presuppone che non vi sia margine di discrezionalità nell’applicazione della pena, il che non si verifica quando sia previsto un minimo ed un massimo entro il quale il giudice possa spaziare, o addirittura un solo limite minimo o massimo. A conferma di ciò militerebbe l’art. 183 disp. att. c.p.p. che consente di rimediare, in sede esecutiva in malam partem, alla omissione dell’applicazione di una pena accessoria, purché essa sia “predeterminata nella specie e nella durata”.
iii) Un terzo argomento, puramente letterale, era rappresentato dall’inciso finale del medesimo art. 37 c.p.: specificando che «in nessun caso può oltrepassarsi il limite minimo e quello massimo stabiliti per ciascuna specie di pena accessoria», il legislatore avrebbe stabilito implicitamente che il criterio in essa formulato (l’equiparazione di durata tra pena principale e pena accessoria) debba trovare applicazione anche quando sia previsto un limite minimo o massimo.
iv) Ancora, veniva evocata la collocazione sistematica dell’art. 37 c.p. “a chiusura” del Capo riservato alle pene accessorie, quale argomento per confermare la natura di norma di carattere generale.
v) Infine, si rammentava come la Corte costituzionale, con la pronuncia n. 134 del 2012, avesse implicitamente avallato la tesi in esame. In quell’occasione la questione di costituzionalità dell’art. 216 u.c. l. fall. era stata dichiarata inammissibile in quanto volta a ottenere una soluzione non costituzionalmente obbligata, ma la Corte aveva espressamente affermato che l’eventuale introduzione della locuzione “fino a…” all’art. 216 u.c. l. fall. avrebbe determinato l’applicabilità dell’art. 37 c.p., il cui meccanismo di calcolo, tuttavia, rappresentava soltanto una delle soluzioni astrattamente ipotizzabili in caso di accoglimento della questione (da cui appunto la decisione – solo successivamente dalla sentenza n. 222 del 2018 – di ritenere precluso un sindacato di costituzionalità).
3.2. Un secondo orientamento, abbracciato dall’ordinanza di rimessione[6], favorevole a un’autonoma commisurazione della pena accessoria ex art. 133 c.p., muoveva dall’opposto presupposto per cui occorre una lettura della sentenza additiva della Corte costituzionale n. 222 del 2018 che integri il dispositivo con quanto affermato in motivazione.
Nelle motivazioni della sentenza della Corte costituzionale, infatti, si rinvengono precise indicazioni interpretative nel senso di escludere l’operatività della regola dettata dall'art. 37 c.p. in riferimento alle pene accessorie della legge fallimentare, a favore – invece – di un’autonoma determinazione da parte del giudice dell’entità della pena accessoria rispetto alla commisurazione della pena principale facendo ricorso ai criteri di cui all’art. 133 c.p.
4. Le odierne Sezioni unite, con la sentenza 28910/2019, aderiscono al secondo orientamento, formulando il principio di diritto secondo cui «le pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all'art. 133 c.p.».
In questo modo la Suprema Corte supera il proprio precedente rappresentato dalla sentenza n. 6240/2014, allineandosi invece alla soluzione interpretativa indicata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 222/2018.
4.1. In primo luogo, le Sezioni unite osservano come i sopra richiamati argomenti addotti dal primo indirizzo – e segnatamente dalla pronuncia delle Sezioni unite n. 6240/2014 – non appaiano convincenti sotto cinque profili.
i) Innanzitutto si osserva che, laddove l’art. 37 c.p. menziona la pena espressamente determinata, esso «richiede che la tecnica legislativa contempli una esplicita indicazione di estensione cronologica della sua durata, che non può intendersi nel solo significato di quantificazione in misura unica, fissa, invariata ed invariabile». Invero, sul piano lessicale, una previsione “espressa” richiede una «dichiarazione esternata, manifestata nel testo e quindi non implicita o sottintesa», sicché “espressa” può considerarsi anche «la previsione di una sanzione da determinare entro un intervallo compreso tra minimo e massimo edittale o in entità non inferiore o non superiore ad uno solo dei due estremi» (§ 8.1).
Del resto, osserva la Corte, l’utilizzo dell'espressione “fino a”, o della previsione di un unico limite invalicabile non è certo una tecnica legislativa propria delle sole pene accessorie, essendo al contrario utilizzata anche in relazione alle pene principali comminate per numerosi delitti e contravvenzioni del codice penale[7].
ii) In secondo luogo, viene ritenuto inconferente il richiamo che il primo indirizzo, e in particolare la sentenza delle Sezioni unite del 2014, faceva all’art. 183 disp. att. c.p.p. Tale disposizione non offre invero alcuna indicazione sul meccanismo di quantificazione della pena accessoria, limitandosi ad apprestare uno strumento attraverso il quale è possibile sopperire all’eventuale omessa applicazione della pena stessa allorché essa sia «predeterminata dalla legge nella specie e nella durata». Tanto l’art. 37 c.p. quanto l’art. 183 disp. att. c.p.p. – dunque – «pongono e non risolvono sul piano dell’immediata disciplina positiva la medesima problematica dell’individuazione di cosa s’intenda per determinazione legale della durata della pena accessoria» (§ 8.2)
iii) Inoltre, l’argomento letterale tratto dall’ultima proposizione dell’art. 37 c.p. – secondo cui «in nessun caso essa può oltrepassare il limite minimo e quello massimo stabiliti per ciascuna specie di pena accessoria» – viene ritenuto non persuasivo, per le medesime ragioni già espresse dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 222 del 2018[8]. A ben vedere, infatti, la norma non va letta nel senso di confermare l’applicabilità dell’automatismo previsto dall’art. 37 c.p. anche ai casi in cui la norma di parte speciale preveda limiti minimi e/o massimi. Questa lettura dell’inciso non è l’unica possibile né quella più aderente al tenore letterale della disposizione. La proposizione in questione, infatti, mantiene utilità e autonoma portata precettiva anche riferendola non già ai limiti di durata delle pene accessorie previsti da singole norme incriminatrici (come l’art. 216 l. fall.), bensì ai limiti minimi e massimi individuati dalle disposizioni (artt. 28-36 c.p.) che prevedono le singole «specie» di pene accessoria (§ 8.3).
iv) Ancora, le Sezioni unite negano che la collocazione sistematica dell’art. 37 c.p. a chiusura del Capo dedicato alle pene accessoria possa essere determinante per affermarne la natura di “regola generale”. Essa appare anzi una «regola residuale», attraverso la quale il legislatore ha inteso predisporre un «meccanismo decisorio, suscettibile di fornire soluzione pratica di immediata attuazione anche per la futura introduzione di nuove ipotesi di pena accessoria, prive di previsioni sanzionatorie, a fronte di un sistema codicistico che nella sua parte generale contiene per ciascuna pena un proprio regolamento edittale e la gamma di criteri orientativi a guidare l’operato del giudice, stabiliti dagli artt. 132 e 133 c.p.» (§ 8.4).
v) Infine, le Sezioni unite osservano come abbia ormai perso pregio anche quell’ultimo argomento che, nel già citato precedente del 2014, veniva invocato a sostegno dell’applicazione dell’art. 37 c.p., e cioè quello che faceva leva sul dictum della sentenza 134 del 2012 della Corte costituzionale (§ 8.5). Tale referente interpretativo risulta infatti ormai superato dalla sopravvenuta sentenza costituzionale n. 222 del 2018 che ha, al contrario, espresso un netto disfavore per l’automatismo nella commisurazione delle pene accessorie, tanto per quello legato alla comminatoria fissa (dichiarata incostituzionale), quanto per quello “indiretto” insito nell’art. 37 c.p. (censurato nelle motivazioni della pronuncia).
4.2. Respinta, per le ragioni appena illustrate, la cogenza della tesi che estendeva l’applicabilità dell’art. 37 c.p. anche alle ipotesi in esame, le Sezioni unite procedono a motivare “in positivo” la tesi della necessaria commisurazione autonoma ex art. 133 c.p. della durata della pena accessoria.
Sul punto viene richiamata quell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale con cui è stata affermata la tendenziale illegittimità costituzionale di ogni automatismo sanzionatorio. Un’evoluzione rispetto alla quale la sentenza n. 222 del 2018 rappresenta solamente uno dei più recenti approdi di un percorso intrapreso dalla Corte fin dall’inizio degli anni ’60 – attraverso l’affermazione di una necessaria «mobilità» (sent. n. 67 del 1963) o «individualizzazione» (sent. n. 104 del 1968) della pena – e che ha uno dei suoi più rilevanti precedenti nella storica sentenza n. 50 del 1980, che aveva perspicuamente affermato che «[i]n linea di principio, previsioni sanzionatorie rigide non appaiono […] in armonia con il “volto costituzionale” del sistema penale ed il dubbio d’illegittimità costituzionale potrà essere, caso per caso, superato a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, questa ultima appaia ragionevolmente “proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato»[9].
Nello stesso senso depone anche – osservano le Sezioni unite – la produzione normativa postcodicistica, giacché, ad esempio, è stato modificato l’art. 166 c.p., così da consentire l’estensione della sospensione condizionale anche alle pene accessorie ed impedire l’attuazione provvisoria in dipendenza della pronuncia di condanna non irrevocabile; o ancora laddove, di recente, la legge 9 gennaio 2019, n. 3, nel rafforzare gli strumenti repressivi e preventivi dei reati contro la P.A., ha operato una rafforzata considerazione autonoma delle pene accessorie, ampliandone l’area applicativa.
5. Se dunque, per le ragioni anzidette, la pena accessoria, al pari di quella principale, può risultare costituzionalmente legittima solo quando effettivamente proporzionata e individualizzata, si comprende la decisione delle Sezioni unite di ritenere necessario procedere ad una commisurazione in concreto della durata di ciascuna delle due pene, secondo i criteri dettati dall’art. 133 c.p.
Invero, l’applicazione dell’art. 37 c.p. comporterebbe il ricorso ad un meccanismo di calcolo comunque fondato su di un automatismo che, sebbene «mediato dall’aggancio alla misura della pena principale, questa sì stabilita in via discrezionale dal giudice, rappresenta pur sempre un sistema rigido di determinazione del trattamento punitivo» (§ 9.1).
L’appiattimento della durata della pena accessoria sulla durata della pena principale – conclude la Corte – «non consente risposte individualizzate e graduate in dipendenza delle peculiarità del caso, delle esigenze specifiche ad esso sottese, nonché delle caratteristiche di afflittività delle singole sanzioni accessorie, incidenti in senso fortemente limitativo sul diritto al lavoro e sul diritto di iniziativa economica, oltre che su altri aspetti della vita individuale e sociale, e finisce per estendervi i sospetti di incostituzionalità, insiti in tutti gli automatismi punitivi» (§ 9.2).
Una rigida e immodificabile equiparazione della durata delle due pene stride infatti con la funzione almeno in parte distinta delle pene accessorie rispetto alle pene principali.
Mentre le pene principali svolgono «funzioni retributive, preventive di carattere generale e speciale, nonché rieducative, mediante la sottoposizione al trattamento orientato al graduale reinserimento sociale del condannato», le pene accessorie, in particolare quelle interdittive ed inabilitative, sono più marcatamente orientate a fini di prevenzione speciale negativa, realizzata «mediante il forzato allontanamento del reo dal medesimo contesto operativo, professionale, economico e sociale, nel quale sono maturati i fatti criminosi e dallo stimolo alla violazione dei precetti penali per impedirgli di reiterare reati in futuro e per sortirne l'emenda» (§ 9.2).
6. Quali ulteriori, ma meno rilevanti, argomenti a favore dell’esposta soluzione, le Sezioni unite segnalano alcuni «inconvenienti» ai quali esporrebbe la diversa tesi dell’applicazione dell’art. 37 c.p.
Si indicano, tra l’altro: a) l’ipotesi in cui sia ritenuta sussistente la circostanza aggravante dell’aver cagionato un danno patrimoniale di rilevante gravità ex art. 219, co. 1 l. fall., nel qual caso la pena principale da tre a dieci anni di reclusione può essere aumentata sino alla metà, con ciò rendendosi inoperante la regola dettata dall’art. 37 c.p., stante l’impossibilità di commisurare le pene accessorie in misura superiore a dieci anni; b) il caso del delitto di accettazione o pattuizione da parte del curatore del fallimento di retribuzione in denaro o altra forma, punito ex art. 229 l. fall. con la reclusione da tre mesi a due anni: in tal caso la pena principale massima coincide con il limite minimo della pena accessoria di cui al comma 2. Dunque, qualora si facesse applicazione dell’art. 37 c.p. risulterebbe «del tutto eccezionale l’equiparazione della durata delle due sanzioni ed impossibile irrogare la pena dell'inabilitazione temporanea dall'ufficio di amministratore per un periodo superiore al minimo» (§ 9.3).
7. In conclusione, la Corte formula il già sopra menzionato principio di diritto: «le pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all'art. 133 c.p.»
Poiché il calcolo della concreta durata della pena accessoria in applicazione dei criteri di cui all’art. 133 c.p. implica evidentemente valutazioni sul fatto, che eccedono i limiti del sindacato di legittimità, le Sezioni unite hanno annullato con rinvio la sentenza impugnata, limitatamente alle pene accessorie, e hanno affidato al giudice del rinvio il compito di individuare, in piena libertà cognitiva e dandone conto in motivazione, la misura congrua ed adeguata al caso concreto delle sanzioni accessorie fallimentari.
* * *
8. Trave portante della soluzione accolta dalle Sezioni unite è il riconoscimento del diverso finalismo sanzionatorio proprio delle pene principali e delle pene accessorie, cui si accompagna una diversa portata afflittiva delle stesse.
Insomma, a caratteri distinti delle pene (principali e accessorie) devono corrispondere distinte operazioni di dosimetria sanzionatoria.
Quel che l’applicazione dell’art. 37 c.p. non consentirebbe è invece reso possibile dall’assegnazione al giudice del potere-dovere di procedere di volta in volta a calcolare in concreto, secondo i criteri dell’art. 133 c.p., sia la pena principale sia la pena accessoria, tenendo conto della diversa funzione che esse sono chiamate a svolgere.
Solo in questo modo la pena accessoria, al pari di quella principale, può risultare effettivamente proporzionata e individualizzata, come esige la Costituzione.
In questo senso, l’odierna pronuncia delle Sezioni unite rappresenta un’importante presa di posizione a favore di un sistema sanzionatorio penale nel cui ambito i principi di proporzionalità e di individualizzazione del trattamento punitivo stanno giocando un ruolo tanto centrale quanto dirompente. Oggi non solo in relazione alle pene principali (detentive e pecuniarie) e alle altre misure di natura sostanzialmente penale (alcune forme di confisca, ad esempio), ma anche in relazione alle pene accessorie (in particolare a quelle di natura interdittiva o inabilitativa), delle quali viene riconosciuta la portata fortemente limitativa di diritti fondamentali della persona, come quello di svolgere un’attività lavorativa o imprenditoriale.
9. La pronuncia si volge dunque coraggiosamente in questa direzione e, confrontandosi con una linea interpretativa tracciata dalla Corte costituzionale, giunge addirittura a ribaltare un orientamento giurisprudenziale consolidato e sposato in passato dalle stesse Sezioni unite.
Nelle motivazioni della sentenza n. 222 del 2018 della Corte costituzionale, infatti, si rinvenivano precise indicazioni interpretative nel senso di escludere l’operatività della regola dettata dall'art. 37 c.p. in riferimento alle pene accessorie della legge fallimentare, a favore – invece – di un’autonoma determinazione da parte del giudice dell’entità della pena accessoria rispetto alla commisurazione della pena principale facendo ricorso ai criteri di cui all’art. 133 c.p. [10].
Sul punto è infatti rilevante rammentare che la scelta della Corte costituzionale di optare per una sentenza additiva – sostituendo la comminatoria fissa con la previsione di un limite massimo (fino a dieci anni) – non era affatto l’unica soluzione astrattamente possibile.
Non si trattava cioè di una soluzione “a rime obbligate”, ma solamente di una di varie possibili strade offerte dall’ordinamento. Ciò non è stato ritenuto d’ostacolo al sindacato della Corte, la quale anzi – sviluppando un principio già espresso in nuce nella precedente sentenza n. 236 del 2016 – ha precisato che non occorre che il sistema offra un’unica soluzione costituzionalmente vincolata in grado di surrogare – quale tertium comparationis – quella dichiarata illegittima, essendo bensì sufficiente che l’ordinamento nel suo complesso contenga «precisi punti di riferimento» e soluzioni «già esistenti» che siano immuni da vizi di illegittimità e che possano sostituirsi alla previsione sanzionatoria dichiarata illegittima.
La principale alternativa che si presentava alla Corte costituzionale, auspicata peraltro nella relativa ordinanza di rimessione, era quella di eliminare tout court dall’art. 216, ultimo comma, l. fall. l’inciso «per la durata di dieci anni». Tale soluzione avrebbe reso non (più) predeterminata dal legislatore la durata delle pene accessorie temporanee ivi previste, rendendo senza dubbio applicabile la regola posta dall’art. 37 c.p., e cioè l’ancoraggio della durata della pena accessoria alla durata della pena principale concretamente inflitta. Cionondimeno, la Corte costituzionale aveva espressamente escluso di percorrere questa strada, ritenendo che ciò avrebbe determinato una sostituzione dell’originario automatismo legale con un diverso automatismo, fondato su un’equiparazione tra la durata della pena principale e quella della pena accessoria: un’equiparazione ritenuta dalla Consulta priva di fondamento, stante la diversa afflittività e la «funzione almeno in parte distinta di queste pene accessorie rispetto alle funzioni proprie della reclusione: ciò che ne giustifica, nell’ottica del legislatore storico – e in consapevole difformità rispetto alla regola residuale di cui all’art. 37 cod. pen., già esistente nel 1942 –, una durata di regola maggiore rispetto a quella della pena detentiva concretamente inflitta».
In questo modo la Corte motivava la scelta di escludere la via della sentenza ablatoria secca, che avrebbe senz’altro comportato l’applicazione dell’automatismo di cui all’art. 37 c.p., e di preferirvi la diversa strada della sentenza additiva di un limite massimo («fino a dieci anni»), lasciando al giudice del processo principale (e a ciascun giudice di ogni altro processo per bancarotta fraudolenta) il compito di stabilire come determinare in concreto la durata della pena accessoria[11].
È quel che è avvenuto in questo caso: le Sezioni unite hanno ritenuto di condividere «l’indicazione del giudice costituzionale», non già dichiarandosi vincolate dal dictum della Consulta, bensì – come si è visto supra – riconoscendone la bontà sul piano letterale, logico e sistematico[12].
10. Quanto alle ripercussioni sistemiche della pronuncia in commento, occorre sottolineare che la decisione delle Sezioni unite di superare espressamente il proprio precedente del 2014, anziché di sottrarre alla disciplina dell’art. 37 c.p. le sole pene accessorie dell’art. 216 l. fall. nel testo riformulato dalla Corte costituzionale, comporta l’applicabilità dell’affermato principio di diritto non solo ai limitati fini del reato di bancarotta fraudolenta, bensì anche a qualsiasi pena accessoria temporanea rispetto alla quale sia prevista una cornice edittale autonoma o un limite entro il quale il giudice possa muoversi discrezionalmente in applicazione dell’art. 133 c.p. È il caso – per limitarsi a un esempio che certamente si presenterà nella prassi – delle pene accessorie previste in materia di reati tributari dall’art. 12 del d.lgs. n. 74/2000.
Il campo di applicazione dell’art. 37 c.p. può dunque ormai dirsi limitato a quei soli casi – tra cui, ad esempio, l’art. 609-nonies in materia di reati sessuali – nei quali la legge prevede l’applicazione di una o più pene accessorie, senza nulla dire circa la loro durata.
11. Quale ulteriore conseguenza della presente pronuncia, rispetto ai futuri giudizi e a quelli in corso, sembra potersi affermare che ogni giudice d’ora in poi sarà tenuto ad operare una valutazione dosimetrica in concreto tanto per la pena principale quanto per la pena accessoria, ben potendo quantificare quest’ultima in misura diversa rispetto alla prima, svolgendo due distinte operazioni di calcolo e due separate motivazioni in sentenza.
Va osservato che la determinazione autonoma in concreto della misura della pena accessoria potrà condurre – e verosimilmente condurrà – all’applicazione di pene accessorie per una durata superiore rispetto a quella delle pene principali.
Questo effetto, potenzialmente in malam partem, deve tuttavia essere riguardato tenendo conto che gli stessi principi di proporzionalità e individualizzazione del trattamento sanzionatorio posti a fondamento della decisione in esame impongono al giudice di confezionare un compendio sanzionatorio che sia nel suo complesso rispettoso di tali principi. La riconosciuta flessibilità nella determinazione del quantum di pena accessoria non può cioè legittimare alcun abuso sanzionatorio in eccesso, che si presenterebbe esso stesso illegittimo perché in contrasto con i medesimi parametri costituzionali di cui agli artt. 3 e 27 Cost.
I più estesi margini di discrezionalità potranno piuttosto essere impiegati in concreto al fine di valutare l’applicazione di pene detentive di durata più ridotta, accompagnando però le stesse con una pena interdittiva più rigorosa, nell’ottica di un progressivo ridimensionamento della centralità della pena detentiva in favore di diversi strumenti punitivi; diversi strumenti – come l’interdizione o l’inabilitazione – che ben possono mantenere alto il livello di deterrenza della pena (soprattutto se raffrontati a pene detentive oggetto di sospensione condizionale) e quello della specialprevenzione (in particolare di quella negativa).
12. Resta infine sullo sfondo la questione – non direttamente affrontata delle Sezioni unite – della sorte delle pene accessorie temporanee applicate nella misura fissa di dieci anni a seguito di condanna per bancarotta fraudolenta passata in giudicato prima della sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 2018.
Rinviando ad altre più opportune sedi ogni approfondimento sul punto, può nondimeno osservarsi che l’attuale esecuzione di pene interdittive applicate in virtù dell’automatismo di cui all’art. 216 u.c. l. fall. dichiarato incostituzionale potrebbe considerarsi essa stessa illegittima, e dunque bisognosa di una rideterminazione in executivis. Deputato a svolgere questa operazione dovrebbe essere il giudice dell’esecuzione, adito a tal fine ex art. 666 c.p.p.
Non sembra peraltro costituire un ostacolo a tale soluzione neppure la necessità di riconoscere in capo al giudice dell’esecuzione un potere discrezionale di commisurazione in concreto dell’entità della pena accessoria, facendo applicazione dei criteri di cui all’art. 133 c.p. La giurisprudenza, anche a Sezioni unite, ha infatti ormai ammesso che la rideterminazione della “pena illegale” da parte del giudice dell’esecuzione sia ammissibile anche qualora si debba ricorrere a poteri caratterizzati da un’ampia discrezionalità. Significativi precedenti possono trarsi dalla giurisprudenza formatasi in materia di stupefacenti, ove la nota sentenza a sezioni unite Gatto del 2014[13] – sulla scia della precedente sentenza Ercolano[14], e sviluppata con ulteriori successivi arresti giurisprudenziali[15] – ha riconosciuto al giudice dell’esecuzione margini di manovra particolarmente ampi, non confinati alla sola verifica della validità e dell’efficacia del titolo esecutivo, bensì estesi al mantenimento del rapporto esecutivo adeguato alla situazione normativa sopravvenuta a seguito di una sentenza di illegittimità costituzionale. Un limite, in questi casi, è rappresentato dal fatto che la decisione sulla rideterminazione deve poter essere adottata sulla base delle valutazioni già svolte dal giudice di cognizione e delle risultanze del processo, da assumersi eventualmente ai sensi dell’art. 666 c. 5 c.p.p.
Ma, al di la di ciò, non sembrano esservi valide ragioni per escludere che tali principi – originariamente formulati in relazione all’esecuzione di pene principali – debbano oggi estendersi anche alle pene accessorie, vieppiù a seguito del riconoscimento rispetto ad esse delle medesime esigenze di proporzione e individualizzazione della risposta sanzionatoria dell’ordinamento.
Deve tuttavia rilevarsi che quanto appena detto in relazione ai possibili margini di incisione del giudicato non sembra potersi estendere anche a eventuali sentenze di condanna per bancarotta fraudolenta ex art. 216 l. fall. passate in giudicato successivamente alla pronuncia della Corte costituzionale ma prima della pronuncia delle Sezioni unite, che – in adesione all’orientamento in quel momento ancora prevalente – abbiano determinato la pena accessoria ai sensi dell’art. 37 c.p. anziché dell’art. 133 c.p. La Corte costituzionale aveva infatti indicato questo meccanismo di calcolo solamente in obiter, e la sopravvenuta pronuncia delle Sezioni unite rappresenta un mero mutamento giurisprudenziale che – anche alla luce di quanto statuito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 230 del 2012 – non permette alcuna modifica del giudicato.
Inoltre, le pronunce della Corte costituzionale e della Corte di cassazione non paiono poter esplicare alcun effetto sui giudicati di condanna – ancorché precedenti alla pronuncia della Consulta – per reati diversi da quello di bancarotta fraudolenta ex art. 216 l. fall., nonostante la relativa pena accessoria fosse stata calcolata attraverso un analogo automatismo. Queste diverse ipotesi, infatti, non sono state raggiunte dalla dichiarazione di incostituzionalità, né una rideterminazione della pena definitivamente inflitta può essere giustificata dal sopravvenuto mutamento giurisprudenziale.
[1] Cass. pen., Sez. un., sent. 27 novembre 2014 (dep. 12 febbraio 2015), n. 6240, Pres. Santacroce, Rel. Amoresano, ric. Basile, in questa Rivista con nota di I. Manca, Le Sezioni unite ammettono l'intervento in executivis sulla pena accessoria extra o contra legem, purché determinata per legge nella specie e nella durata, 8 marzo 2015.
[2] Corte cost., sent. 25 settembre 2018 (dep. 5 dicembre 2018), n. 222, Pres. Lattanzi, Red. Viganò, in questa Rivista con nota di A. Galluccio, La sentenza della Consulta su pene fisse e 'rime obbligate': costituzionalmente illegittime le pene accessorie dei delitti di bancarotta fraudolenta, 10 dicembre 2018.
[3] In particolare, si tratta delle pene accessorie dell’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e dell’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa.
[4] Cass. pen., sez. V, 07 dicembre 2018 (dep. 2019), n. 1963, Piermartiri; Cass. pen., sez. V, 7 dicembre 2018 (dep. 2019), n. 1968, Montoleone,
[5] Sul punto vengono richiamate, tra l’altro: Cass. pen., sez. V, 05 febbraio 2015, n. 15638, Assello; Cass. pen., sez. V, 16 febbraio 2012, n. 23606, Ciampini; Cass. pen., sez. V, 02 marzo 2010, n. 13579, Ografo; Cass. pen., sez. V, 18 febbraio 2010, n. 17690, Cassa di Risparmio di Rieti S.p.a.; Cass. pen., sez. V, 15 marzo 2000, n. 4727, Albini.
[6] Cass. pen., sez. V, ord. 14 dicembre 2018, n. 56458, Pres. Vessichelli, Rel. Scotti, Suraci e a., in questa Rivista con nota di A Galluccio, Pene accessorie della bancarotta fraudolenta e applicazione dell'art. 133 c.p.: la palla passa alle Sezioni unite, dopo l’intervento della Consulta, 14 gennaio 2019. Ad essa sono seguite altre pronunce conformi: Cass. pen., sez. V, 20 dicembre 2018 (dep. 2019), n. 4780, D’Aquini; Cass. pen., sez. V, 29 gennaio 2019, n. 5882, Baù; Cass. pen., sez. V, 18 gennaio 2019, n. 5514, Passafaro; Cass. pen., sez. V, 14 dicembre 2018 (dep. 2019), n. 6115, Sperduti. Prima dell’intervento delle già citate Sezioni unite n. 6240 del 2014, questa tesi era stata sostenuta da: Cass. pen., sez. VI, 03 dicembre 2013 (dep. 2014), n. 697, Antonelli; Cass. pen., sez. f., 1 agosto 2013, n. 35729, Agrama; Cass. pen., sez. III, 15 ottobre 2008, 42889, Di Vincenzo; Cass. pen., sez. III, 17 aprile 2008, n. 25229, Ravara; Cass. pen., sez. III, 15 ottobre 2008, n. 42889, Di Vincenzo; Cass. pen., sez. V, 21 settembre 1989, n. 759, Denegri.
[7] Le Sezioni unite menzionano numerosi esempi, elencati al § 8.1 della sentenza in oggetto.
[8] Cfr. § 8.4 della sent. n. 222 del 2018 della Corte costituzionale.
[9] In senso conforme, le Sezioni unite menzionano anche le successive pronunce n. 409 del 1989, n. 341 del 1994, n. 436 del 199, n. 257 del 2006, n. 79 del 2007, n. 189 del 2010 e n. 236 del 2016.
[10] La Corte evidenziava infatti che, a suo parere, «la regola residuale di cui all’art. 37 cod. pen. continuerà dunque a non operare rispetto all’art. 216, ultimo comma, della legge fallimentare – come risultante dalla presente pronuncia –, dal momento che tale regola ha come suo presupposto operativo che la durata della pena accessoria temporanea non sia espressamente determinata dalla legge. L’esistenza di una lex specialis, in effetti, esclude l’operatività del criterio residuale di cui all’art. 37 cod. pen., il cui inciso finale («in nessun caso [la pena accessoria] può oltrepassare il limite minimo e quello massimo stabilito per ciascuna specie di pena accessoria») appare riferito non già ai limiti di durata delle pene accessorie previsti da singole norme incriminatrici – come l’art. 216 della legge fallimentare –, bensì ai limiti minimi e massimi individuati dalle disposizioni del Libro I del codice penale – in particolare, dagli artt. 28, terzo comma, 30, secondo comma, 32-ter, secondo comma, 35, secondo comma, e 35-bis, secondo comma, cod. pen. – che prevedono le singole «specie» di pene accessorie» (§ 8.4 della sent. n. 222 del 2018).
[11] La Corte costituzionale, pur nella sua netta presa di posizione, aveva nondimeno riconosciuto (come già nella sentenza n. 28 del 2010) che «la valutazione del modo in cui il sistema normativo reagisce ad una sentenza costituzionale di accoglimento […] spetta al giudice del processo principale, unico competente a definire il giudizio da cui prende le mosse l’incidente di costituzionalità».
[12] In modo molto esplicito al § 6 della sentenza in commento si legge: «Queste Sezioni Unite, pur nella consapevolezza della non obbligatoria conformazione alle indicazioni del giudice costituzionale, perchè non di matrice legislativa, tuttavia ritengono di dovervi aderire in quanto conformi ai precetti costituzionali ed avvalorate dall’interpretazione letterale-logico-sistematica».
[13] Cass., Sez. un. pen., 29 maggio 2014 (dep. 14 ottobre 2014) n. 42858, Pres. Santacroce, Rel. Ippolito, Gatto, in questa Rivista con nota di G. Romeo, Le Sezioni unite sui poteri del giudice di fronte all'esecuzione di pena "incostituzionale", 17 ottobre 2014, e di S. Ruggeri, Giudicato costituzionale, processo penale, diritti della persona, 22 dicembre 2014.
[14] Cass. pen., Sez. un., 24 ottobre 2013 (dep. 7 maggio 2014), n. 18821, Pres. Santacroce, Rel. Milo, Ercolano in questa Rivista con note di, M. Bignami, Il giudicato e le libertà fondamentali: le Sezioni unite concludono la vicenda Scoppola-Ercolano, 16 maggio 2014; e di F. Viganò, Pena illegittima e giudicato. Riflessioni in margine alla pronuncia delle Sezioni unite che chiude la saga dei "fratelli minori" di Scoppola, 12 maggio 2014.
[15] Cfr., ad esempio, Cass. pen, sez. fer., 25 agosto 2015, (dep. 4 settembre 2015), n. 35980 che nega che il giudice dell’esecuzione sia tenuto ad un’operazione di ricalcolo meramente matematico e proporzionale, ben potendo invece fare ricorso ad una rideterminazione in concreto sulla base della cornice edittale sopravvenuta a seguito della pronuncia di incostituzionalità. In senso analogo, e probabilmente in modo ancor più marcato, ma in materia di sequestro di persona, cfr. Cass. pen., sez. I, 4 dicembre 2014 (dep. 10 febbraio 2015), n. 5973, già annotata in questa Rivista, che ha affermato che – in seguito alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p. nella parte in cui non prevedeva l’attenuante della lieve entità del fatto – il soggetto che stia scontando una condanna definitiva per tale reato può chiedere al giudice dell’esecuzione di verificare se sussistano i presupposti per il riconoscimento di tale attenuante e, conseguentemente, di rideterminare la pena da scontare.