ISSN 2039-1676


14 marzo 2019 |

Le prime decisioni di merito in ordine alla disciplina intertemporale applicabile alle norme in materia di esecuzione della pena contenute nella cd. legge spazzacorrotti

Trib. Napoli, VII sez., 28 febbraio 2019 (dep. 1 marzo 2019); GIP Como, 8 marzo 2019

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1. Come era agevole prevedere, giungono al vaglio della giurisprudenza le prime delle molte questioni problematiche evidenziate in dottrina all’indomani dell’approvazione della legge nota sui media come “spazzacorrotti” (l. 16.1.2019, n. 3, entrata in vigore il 31.1.2019). In mancanza di alcuna disciplina di diritto transitorio, sono come di consueto proprio i problemi relativi all’applicabilità ratione temporis della nuova disciplina a porsi per primi all’attenzione dei giudici: e come vedremo, si tratta di questioni di soluzione tutt’altro che agevole.

I due provvedimenti qui annotati affrontano, con opposte soluzioni, il medesimo problema giuridico, i cui contorni erano già stati nitidamente delineati in dottrina[1]. La legge appena entrata in vigore è intervenuta sul testo dell’art. 4-bis della legge sull’ordinamento penitenziario (l. 354/1975), introducendo nel novero di reati che impediscono la concessione delle misure alternative alla detenzione anche le più gravi fattispecie delittuose contro la pubblica amministrazione (artt. 314 co. 1, 317, 318, 319, 319-bis, 319-quater co. 1, 320, 321, 322, 322-bis). Tale modifica ha comportato anche che, in relazione alle sentenze definitive di condanna per uno di tali reati, il pubblico ministero non debba più disporre la sospensione dell’esecuzione prevista in caso di inflizione di una pena detentiva non superiore a quattro anni (ai sensi dell’art. 656 co. 5 c.p.p., come risultante a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 41/18[2]), posto che ex art. 656 co. 9 per i reati di cui all’art. 4-bis o.p. la sospensione dell’esecuzione prevista al co. 5 non può essere disposta. Le decisioni in commento affrontano appunto la questione se la novella in materia di sospensione dell’esecuzione della pena detentiva sia applicabile anche in procedimenti relativi a fatti compiuti prima della sua entrata in vigore, e in ipotesi in cui la sospensione fosse già stata disposta prima di tale momento.

 

2. Il caso deciso dal Tribunale di Napoli ha ad oggetto proprio quest’ultima ipotesi. A seguito di condanna definitiva a due anni e tre mesi per il reato di cui all’art. 322 c.p., la Procura nel mese di agosto emetteva nei confronti della condannata l’ordine di esecuzione della sanzione detentiva, con contestuale decreto di sospensione ai sensi dell’art. 656 co, 5 c.p.p.; nel mese di ottobre la condannata presentava istanza di ammissione alle misure alternative alla detenzione, domanda che al momento non è ancora stata valutata dal Tribunale di sorveglianza. Nel mese di febbraio di quest’anno, preso atto delle modifiche apportate all’art. 4-bis o.p. dalla legge n. 3/2019, la Procura revoca la sospensione in precedenza concessa, ed ordina la carcerazione della condannata.

Investito della questione dalla richiesta di revoca dell’ordine di carcerazione formulata dalla condannata, il Tribunale prende le mosse dal ribadire “il principio pressoché costantemente espresso dalla giurisprudenza di legittimità secondo il quale le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione, non riguardando l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena ma soltanto le modalità esecutive della stessa, non hanno carattere di norme penali sostanziali e non sono perciò assoggettabili alle regole dettate in materia di successione di leggi penali nel tempo dall’art. 2 c.p. e dall’art. 25 Cost.”.      

Il ricorso viene comunque accolto, e l’ordine di carcerazione revocato, perché secondo il Tribunale proprio il principio del tempus regit actum, applicabile alla successione di norme non sostanziali, non consentiva la revoca dell’ordine di sospensione, emesso in conformità alla normativa all’epoca vigente: “proprio in applicazione del principio tempus regit actum (richiamato anche nel provvedimento di cui si chiede la revoca) le successive modifiche di legge non possono interferire con i provvedimenti di esecuzione con sospensione già emessi”.

 

3. A conclusioni opposte, sullo specifico punto che qui interessa dell’applicabilità retroattiva della novella, giunge invece il GIP presso il Tribunale di Como, cui un condannato alla pena di quattro anni di reclusione per peculato si era rivolto chiedendo la sospensione dell’ordine di esecuzione emesso dalla Procura.

Il GIP lariano esclude innanzitutto di poter valutare le censure mosse dalla difesa del ricorrente nei confronti delle modifiche alla disciplina dell’accesso a misure alternative, e limita l’ambito del proprio giudizio alle valutazioni inerenti alla sospensione dell’ordine di esecuzione: “i due piani (quello delle modifiche delle condizioni per l’accesso alle misure alternative e quello della sospensione dell’ordine di esecuzione per consentire la richiesta delle misure alternative stando fuori dal carcere) non devono essere confusi e in questa sede non possono essere fatte valere richieste o questioni di incostituzionalità dell’art. 4-bis o.p. poiché il giudice dell’esecuzione non è competente in materia di applicazione dei benefici penitenziari, ma possono di contro essere proposte richieste o sollevate questioni di incostituzionalità dell’art. 656 co. 9 c.p.p., essendo pacificamente competenza del giudice di esecuzione decidere se l’ordine di esecuzione possa essere dichiarato temporaneamente inefficace per consentire il deposito dell’istanza di misura alternativa”.

Venendo allora al problema se le modifiche alla disciplina dell’ordine di esecuzione siano o meno applicabili in via retroattiva, in mancanza di norme di diritto transitorio, è il giudice a dover valutare “la natura sostanziale o processuale della norma di nuova introduzione, e verificare se in ossequio ai principi espressi nell’art. 25 Cost., nell’art. 2 c.p. e nell’art. 7 CEDU debba essere dichiarata la irretroattività della norma penale più sfavorevole per i condannati che abbiano commesso il fatto-reato in epoca antecedente all’entrata in vigore della modifica di legge peggiorativa”.

Il provvedimento ricorda come “la giurisprudenza sinora consolidata ha sempre ribadito che le norme dell’ordinamento penitenziario avrebbero natura processuale e non sostanziale perché non attengono né alla cognizione del reato, né all’irrogazione della pena, bensì alle modalità esecutive della pena”, e specifica come anche in relazione all’art. 656 c.p.p., che non è norma di diritto penitenziario, “la Corte di cassazione si è espressa a onor del vero negli stessi termini: tale norma è sempre stata qualificata come norma processuale sottoposta al principio tempus regit actum”. 

Da tale consolidato orientamento il giudice ritiene tuttavia di doversi discostare. “Punto di partenza del ragionamento è la ratio dei principi introdotti dall’art. 25 Cost., dall’art. 2 c.p. e dall’art. 7 CEDU, ovvero quella di tutelare il cittadino rispetto ai possibili abusi del potere legislativo e di non consentire che si possano seguire conseguenze penali afflittive che sono entrate in vigore successivamente alla commissione del fatto-reato”. Richiamando l’approccio anti-formalistico adottato dalla Corte costituzionale e dalla Corte EDU per ritenere applicabile il principio di irretroattività anche a misure non qualificate come penali dal legislatore, il giudice afferma che “tenuto conto dell’ampiezza degli istituti applicabili in sede di esecuzione della pena e della radicalità dei mutamenti che caratterizzano la qualità della pena nella fase esecutiva a partire dalla riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, non può non riconoscersi oggi che quelle che, con una truffa delle etichette, vengono considerate norme meramente processuali, perché ‘attinenti alle modalità esecutive della pena’, siano in realtà norme che incidono sostanzialmente sulla natura afflittiva della pena”.

Il giudice insomma non ritiene di poter condividere il tradizionale orientamento pretorio, perché viziato da un formalismo che impedisce di vedere come talvolta anche la modifica di norme processuali o relative all’esecuzione della pena possa avere effetti che incidono sulla qualità e sull’essenza della pena stessa, di talché farne applicazione retroattiva comporta una lesione dell’affidamento tutelato dal principio di irretroattività in materia penale.

“Quel che qui si intende sottolineare, sotto il profilo del diritto intertemporale, è che le conseguenze dell’applicazione di tale norma per colui che ha commesso il fatto prima della sua approvazione, si riverberano in fatto, non semplicemente sulla modalità di esecuzione della pena ma sulla stessa natura della sanzione che nella sua fase iniziale impone la detenzione anche se il soggetto risulterà meritevole di una misura alternativa. (…) Nella sostanza, dunque, la norma di cui oggi si discute non declina una modalità esecutiva ma esclude una dinamica sostitutiva che incide sulla specie di pena, facendola ri-espandere nella sua pienezza di istituto deprivativo della libertà: è pertanto una norma che incide sulla portata della comminatoria e non sulla sola dimensione esecutiva, ovvero, nella sostanza, una norma penale a tutti gli effetti. Sotto tale profilo è opportuno superare la classica dicotomia in base alla quale si tende ad attribuire aprioristica natura sostanziale alle norme che influiscono sul quantum della pena e aprioristica natura processuale alle norme che incidono sulla qualità della pena, anche quando ne trasfigurino completamente il contenuto, così incidendo in modo significativo sulla libertà personale tanto quanto le variazioni del quantum di pena”.

Sulla scorta di tali considerazioni, il giudice conclusivamente ritiene che applicare la nuova normativa in materia di sospensione dell’ordine di esecuzione a procedimenti per fatti anteriori alla sua entrata in vigore “significa violare l’art. 117 della Costituzione integrato dall’art. 7 CEDU, nonché gli artt. 25 co. 2 Cost. e 2 c.p., norme il cui raggio di operatività non può non estendersi a tutte le disposizioni che, a prescindere dalle etichette, abbiano, come nel caso di specie, un contenuto afflittivo o intrinsecamente punitivo”; per queste ragioni il giudice dichiara “la temporanea inefficacia dell’ordine di carcerazione emesso nei confronti del condannato per la durata di trenta giorni”.

 

* * *

 

4. In attesa che sulla questione si pronuncino i giudici di legittimità (la Procura di Como ha reso nota l’intenzione di impugnare il provvedimento del GIP di cui si è appena dato conto), proviamo qui ad abbozzare alcune riflessioni sulle delicate problematiche affrontate nei provvedimenti allegati.

La decisione dei giudici napoletani conferma l’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità riguardo all’applicazione nel tempo delle norme in materia di misure alternative alla detenzione: non trattandosi di norme di diritto penale sostanziale, che godono della garanzia costituzionale e convenzionale dell’irretroattività, ed in mancanza di apposita disciplina di diritto transitorio, si applica il criterio del tempus regit actum, per cui ai fatti commessi prima della novella possono applicarsi anche le modifiche in senso peggiorativo della disciplina.

Dall’adesione a tale consolidato principio di diritto, il Tribunale di Napoli ricava correttamente la conclusione per cui, posto che nel caso di specie l’ordine di sospensione era stato legittimamente emanato prima della novella, illegittimamente la Procura aveva poi provveduto a revocarlo in applicazione della nuova disciplina. La condannata non aveva ancora iniziato l’esecuzione della misura alternativa per ritardi imputabili al Tribunale di sorveglianza cui la richiesta era stata rivolta, e risultava del tutto irragionevole interrompere lo sviluppo del percorso intrapreso disponendo la sua immediata carcerazione, con il paradosso di fondare sul principio del tempus regit actum la revoca di un provvedimento (l’ordine di sospensione dell’esecuzione) emesso in modo conforme al diritto allora vigente. La conclusione è allora favorevole alla condannata solo perché l’ordine di sospensione dell’esecuzione era già stato emanato prima della novella, ma il Tribunale è esplicito nel negare l’applicabilità del principio di irretroattività peculiare delle norme penali sostanziali alle disposizioni concernenti l’esecuzione delle misure alternative. E’ ovvio allora che, applicando i principi enunciati dal Tribunale, dopo la riforma la Procura dovrebbe orientare la decisione se concedere o meno la sospensione dell’esecuzione sulla base della nuova normativa, che troverebbe applicazione appunto in ragione del tempus regit actum.

Una prospettiva del tutto innovativa viene invece proposta dal GIP di Como, che prende posizione in maniera decisa contro quello che pure riconosce come un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità.

Abbiamo ricostruito in modo analitico l’argomentazione del provvedimento e non avrebbe senso ora tornarvi. Volendo qui abbozzarne una primissima valutazione, a noi pare sia prima di tutto da constatare come l’orientamento prevalente, per quanto a più riprese confermato anche dalle Sezioni unite della Cassazione, appaia a ben vedere privo di adeguato supporto argomentativo.

Soffermiamoci a titolo esemplificativo sulla più recente sentenza in argomento delle Sezioni unite, che ha ad oggetto esattamente la stessa questione di cui si discute oggi[3]. In quel caso le Sezioni unite dovevano valutare se l’inserimento dei più gravi delitti in materia sessuale tra i reati ostativi alla sospensione dell’ordine di esecuzione fosse applicabile anche in procedimenti relativi a fatti commessi prima dell’entrata in vigore della riforma.

Secondo le Sezioni unite, “il problema non risulta affrontato specificamente dalla dottrina. Ma in linea generale questa è propensa a estendere il principio di irretroattività delle norme penali di cui all'art. 25 Cost., comma 2, a tutte le disposizioni limitative dei diritti di libertà, tra le quali rientrano indubbiamente anche quelle che escludono la sospensione della carcerazione e l'applicazione di misure alternative alla detenzione. Diametralmente opposta è però la soluzione adottata dalla costante giurisprudenza di legittimità. Questa infatti, da molti anni a questa parte, è concorde nell'affermare che le disposizioni concernenti le misure alternative alla detenzione, in quanto non riguardano l'accertamento del reato e l'irrogazione della pena, ma attengono soltanto alle modalità esecutive della pena irrogata, non hanno carattere di norme penali sostanziali, e quindi - in assenza di specifiche norme transitorie - soggiacciono al principio tempus regit actum e non alla disciplina dell'art. 2 c.p. e dell'art. 25 Cost.”[4]. Richiamata poi la giurisprudenza di legittimità relativa specificamente alla retroattività di modifiche all’art. 656 c.p., secondo la Cassazione “sia per la natura giuridica degli istituti, sia per il significato complessivo della normativa citata, quindi, va ribadito che il principio di irretroattività delle norme penali si applica solo per le pene inflitte dal giudice della cognizione, ma non anche per le misure alternative alla detenzione stabilite dal giudice di sorveglianza e per ogni altra modalità esecutiva della pena”. La Cassazione trova poi conferma di tale orientamento in una decisione della Corte costituzionale (n. 306/1993), ove in effetti i giudici delle leggi avevano sì affermato che l’applicabilità del principio di irretroattività delle norme penali anche alle disposizioni che regolano l’esecuzione della pena “potrebbe meritare una seria riflessione”[5], ma si erano comunque astenuti dal mettere in discussione il tradizionale orientamento della giurisprudenza ordinaria.

La sentenza appena riassunta ci pare significativa, nella sua povertà argomentativa, di come all’orientamento tradizionale sia davvero imputabile quel vizio di formalismo che induce al suo rifiuto il giudice comasco. In sostanza, la giurisprudenza di legittimità si limita ogni volta a richiamare il postulato per cui il principio di irretroattività di cui all’art. 25 Cost. e 7 CEDU non si applica alle misure esecutive della pena, e neppure si confronta con l’argomento per cui sulla base di questa classificazione formale si va a violare proprio quell’affidamento nella prevedibilità della risposta punitiva dello Stato, che le norme sovra-legali appena citate mirano a tutelare.

Eppure, il problema di rispetto sostanziale della garanzia delle prevedibilità ci appare in tali ipotesi evidente. Un soggetto, al momento in cui ha commesso il fatto, poteva confidare che la sua eventuale condanna ad una pena non superiore a quattro anni non avrebbe comportato, a certe condizioni (molto ampie), il suo ingresso nel sistema carcerario, perché la pena detentiva sarebbe stata sospesa per consentirgli di fare richiesta di misure alternative alla detenzione. Ora, l’ordinamento inasprisce per ragioni di prevenzione generale il trattamento punitivo di alcuni reati, impedendo la concessione delle misure alternative e di conseguenza la sospensione della carcerazione; al nostro soggetto i giudici rispondono che non è meritevole di tutela il suo affidamento nel fatto che il reato che andava a commettere non avrebbe quasi sicuramente comportato il suo ingresso in carcere, perché le norme sull’esecuzione della pena non hanno natura sostanziale, e dunque la sua carcerazione non viola il diritto alla prevedibilità al momento del fatto della risposta sanzionatoria dello Stato.

Davvero a noi pare un caso esemplare di come l’adesione acritica ad una categorizzazione rigida e formalistica impedisca di vedere la sostanza dei problemi.

In molti casi, in effetti, l’applicazione del tempus regit actum alle norme in materia di esecuzione della pena, anche se peggiorative, non comporta una violazione dell’affidamento tutelato per la materia penale dall’art. 25 Cost. e 7 CEDU, perché tale affidamento è garantito rispetto all’an, al genus e al quantum della sanzione, ma non anche rispetto alle specifiche modalità con cui il legislatore vorrà regolamentare (sempre ovviamente nel rispetto dei principi in tema di finalità e di modalità esecutive della pena) la fase di esecuzione della pena detentiva.

Pensiamo, per limitarci ad un caso recente, alla decisione della Corte costituzionale n. 143 del 2013, in cui è stata pronunciata l’incostituzionalità di una modifica del 2009 che restringeva i colloqui difensivi dei detenuti in regime di “carcere duro”[6]. In questo caso, neppure si era posto il problema della irretroattività della modifica, dandosi per scontato che, in virtù del tempus regit actum, le norme sui colloqui applicabili fossero quelle vigenti al momento della detenzione, a nulla rilevando esse fossero meno favorevoli di quelle vigenti al momento della commissione del fatto. Sarebbe in effetti eccessivo estendere la prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie tutelata dall’irretroattività in materia penale sino a ricomprendervi la prevedibilità delle specifiche modalità di esecuzione della pena detentiva. Il consociato ha diritto a sapere il genere e le quantità di pena che potrà venirgli inflitta, ma non ha diritto a conoscere anticipatamente le condizioni in cui si troverà a vivere in carcere. Ciò che conta è che le modalità di carcerazione siano compatibili con i diritti del detenuto (e proprio la violazione di tali diritti ha condotto nel 2013 la Consulta alla censura della novella del 2009); ma le regole della detenzione sono quelle vigenti al momento in cui questa viene eseguita, e non quelle del momento in cui ciascun detenuto ha commesso il fatto. Qui, davvero non vediamo alcuna lesione del diritto alla prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie tutelato dalle Carte fondamentali.

Il rischio insito nell’adesione a rigidi schematismi formali è però proprio quello di estendere l’applicazione di un principio, pur ragionevole nella sua essenza, a situazioni che rientrano nella categoria formale, ma ne sono distanti sotto il profilo della sostanza dei diritti in gioco. Ci pare proprio il caso ora in esame. Le modifiche della legge “spazzacorrotti” in materia di accesso alle misure alternative alla detenzione e di sospensione dell’ordine di carcerazione rientreranno pure formalmente nella categoria delle modifiche attinenti alle modalità esecutive della pena, ma nei fatti comportano un fortissimo inasprimento della risposta sanzionatoria nei delitti contro la pubblica amministrazione. Da una pena detentiva che il condannato avrebbe quasi sicuramente espiato a casa, aderendo alle prescrizioni impartitegli, ad una immediata carcerazione al momento in cui la condanna diventa definitiva, con la prospettiva molto probabile di non avere più accesso alle misure alternative. Ci pare difficile negare che si tratti di modifiche che, con le parole del giudice comasco, “trasfigurino completamente il contenuto della sanzione”.

Eppure, secondo la giurisprudenza maggioritaria il presupposto per cui il principio di irretroattività non vale per le norme in tema di esecuzione della pena, dovrebbe bastare per escludere che in questo modo si leda l’affidamento del consociato tutelato dal principio di irretroattività in materia penale. Se il legislatore aumenta, anche in modo modesto, l’entità della pena detentiva, questa modifica peggiorativa vale solo per il futuro, ma se modifica le modalità esecutive della pena stessa, prevedendo la carcerazione invece dell’espiazione extra-muraria, tali modifiche si applicano retroattivamente perché non hanno natura sostanziale: nell’ottica dell’affidamento dei consociati, alla cui tutela è volto il principio di prevedibilità in materia penale, davvero ci pare una soluzione poco coerente con le esigenze di una tutela effettiva dei diritti fondamentali[7]

Correttamente, per giustificare la volontà di sottrarsi alla “truffa delle etichette” sottostante all’approccio formalistico della giurisprudenza maggioritaria, il giudice di Como richiama alcuni precedenti della Corte EDU e della Corte costituzionale relativi all’estensione del principio di irretroattività in materia penale a sanzioni formalmente non penali (vengono in particolare citate la sentenza Welch c. Regno Unito della CEDU e le sentenze 196/2010 e 223/2018 della Corte costituzionale, tutte in materia di confisca). Il riferimento ci pare sicuramente importante per il richiamo a quell’approccio sostanzialistico e non formalistico al problema delle garanzie in materia penale, che è a fondamento dei criteri Engel e della nozione convenzionale e costituzionale di materia penale.

Bisogna però fare attenzione a chiarire che, se la logica per fornire una soluzione al problema è la stessa, i criteri per risolvere la questione che qui ci interessa devono essere diversi da quelli posti a fondamento della nozione di matière pénale in sede europea. I criteri Engel, infatti, servono per definire quando una sanzione, pur non definita come penale dal legislatore, è comunque meritevole per la sua natura punitiva delle garanzie convenzionali della materia penale, ma nel caso di specie la questione non è se la sanzione abbia o meno natura penale (è ovvio che siamo in ambito penale, trattandosi di misure esecutive di una sanzione anche formalmente penale), ma se la norma modificata abbia carattere di norma penale sostanziale o invece processuale o attinente alle modalità esecutive della pena. Il problema insomma non attiene alla definizione del perimetro della materia penale, bensì al distinto ed ulteriore problema della natura sostanziale o processuale della disposizione in questione: e rispetto a tale problema, i criteri Engel non sono decisivi, perché delimitano l’area della materia penale, non le sue partizioni interne[8].

In effetti, anche la giurisprudenza europea non fornisce al riguardo indicazioni decisive. E’ vero che, con la sentenza di Grande camera Del Rio Prada del 2013, la Corte EDU ha messo in discussione il tradizionale principio per cui le misure relative all’esecuzione della pena non rientrano nella sfera di applicabilità dell’art. 7, ritenendo violata tale disposizione da una modifica della disciplina in materia di computo degli sconti di pena da riconoscere ai condannati all’ergastolo per il lavoro svolto in carcere. Con tale importante decisione la Corte afferma il principio per cui, se le modifiche introdotte alla disciplina della fase esecutiva conducono a una “ridefinizione o a una modifica della portata della pena inflitta dal giudice”, si applica l’art. 7, perché in caso contrario la disposizione convenzionale verrebbe privata del suo effetto utile[9]. Eppure, nulla viene precisato in ordine ai criteri per stabilire quando una tale modifica della portata della pena debba considerarsi verificata, e soprattutto se essa possa ritenersi sussistente anche quando la modifica non incida, come nel caso Rio Prada, sul quantum di pena da espiare effettivamente in carcere, ma sulle modalità (murarie o extra-murarie) della sua esecuzione.

Il problema rimane aperto, ed è sicuramente meritevole di ulteriore riflessione. La proposta interpretativa del giudice di Como, per cui si applica il divieto di applicazione retroattiva quando le modifiche sulla disciplina esecutiva della pena sono di tale portata da incidere sulla sua stessa natura[10], ci pare ragionevole, e coerente con la ratio del principio di irretroattività in materia penale. Scontare la pena detentiva inflitta dal giudice in carcere piuttosto che nella propria abitazione, nell’ambito dell’esecuzione di una misura alternativa, comporta un vero e proprio mutamento del genus sanzionatorio, che se applicato retroattivamente reca una grave violazione all’affidamento dei consociati nella prevedibilità della risposta punitiva.

L’incidenza della modifica del regime esecutivo sulla natura stessa della sanzione, che da privativa della libertà diventa solo limitativa della stessa, ci pare in effetti un primo, fondamentale criterio per valutare se è necessario o meno riconoscere il principio di irretroattività. Ma come già accennato, il tema ci pare ancora non a sufficienza esplorato, e ci auguriamo che la prossima decisione della Cassazione rappresenti un’occasione per i giudici di legittimità per rivedere il tralaticio principio dell’applicabilità del tempus regit actum ad ogni modifica in materia di esecuzione della pena, e provare a tracciare confini meno formalistici all’ambito di applicazione del fondamentale canone garantistico della prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie.

 

In conclusione di queste brevi note, ancora alcune osservazioni su questioni tangenziali al tema principale qui affrontato.

I due provvedimenti annotati si pongono il problema della retroattività delle modifiche in tema di sospensione dell’ordine di esecuzione, mentre non affrontano quello della retroattività delle modifiche relative ai requisiti per l’accesso alle misure alternative, posto che la concessione di tali misure è estranea alle competenze del giudice dell’esecuzione. Ciò non toglie che, a nostro avviso, la conclusione che si intenda fornire alle due questioni non può che essere la medesima. Se, per le ragioni appena analizzate, si ritiene che l’applicazione retroattiva della novella riguardo alla sospensione dell’esecuzione violi il principio di cui all’art. 25 Cost. e 7 CEDU, sarà poi giocoforza riconoscere la violazione di tale principio anche rispetto all’applicazione retroattiva di nuove preclusioni all’accesso a quelle misure alternative, alla cui fruizione ab initio è appunto finalizzata la disciplina sulla sospensione dell’esecuzione. La sostanza del problema ci pare in effetti identica nelle due ipotesi. Se si condividono gli argomenti del giudice lariano, e si ritengono inapplicabili retroattivamente modifiche alla disciplina esecutiva che incidano sulla natura stessa della sanzione, ciò deve condurre ad impedire l’applicazione retroattiva non solo della disciplina sulla sospensione dell’esecuzione, ma anche (e forse addirittura a fortiori) della disciplina sull’accesso alle misure alternative, rispetto alla quale ha funzione servente la disciplina sulla sospensione dell’esecuzione. Dunque, quando la Cassazione si esprimerà sulle questioni relative ai profili intertemporali della sospensione dell’esecuzione, i principi che verranno affermati saranno validi a nostro avviso anche in ordine al problema dell’efficacia nel tempo delle nuove preclusioni alle misure alternative, che nel rispetto della ratio degli artt. 25 Cost. e 7 CEDU dovrebbero valere solo in relazione a procedimenti per fatti successivi alla riforma.

Una brevissima riflessione ci pare poi meritare la scelta del giudice di Como che, di fronte ad un tradizionale orientamento della giurisprudenza di legittimità che egli ritiene contrario alla correttezza interpretazione del principio costituzionale di irretroattività in materia penale, decide di non sollevare questione di costituzionalità, e di fornire invece quella che ritiene la sola interpretazione costituzionalmente corretta della normativa, per quanto opposta a quella prevalente. Il problema non è semplice, e meriterebbe una riflessione più approfondita di quanto sia possibile fare in questa sede. Certo il giudice ha sempre l’obbligo di fornire della normativa che è chiamato ad applicare l’interpretazione che gli appaia più coerente con i principi costituzionali che regolano la materia, ed in questo caso non vi era alcun ostacolo normativo che impedisse al giudice di adottare un’interpretazione costituzionalmente conforme tale da escludere ogni violazione del principio di irretroattività in materia penale. Tuttavia, tale interpretazione è stata costantemente e a più riprese esclusa dalla Cassazione: non è forse in tali occasioni più corretto per il giudice di merito, che non condivida il “diritto vivente” perché lo ritiene incostituzionale, sollevare questione di costituzionalità e rimettere così la questione al giudice delle leggi, invece di adottare una soluzione destinata (salvo un deciso revirement della Cassazione) a venire smentita in sede di impugnazione? La questione ci pare aperta, e non è affatto da escludere, visto il rilievo che la questione ha assunto anche nel dibattito pubblico, che qualche giudice decida di sollevare questione di costituzionalità relativa all’applicazione retroattiva delle modifiche della sospensione dell’ordine di esecuzione (il giudice dell’esecuzione) o delle modifiche ai criteri di accesso alle misure alternative (la magistratura di sorveglianza). Se poi il giudice che non condividesse l’orientamento prevalente fosse la Cassazione, si aprirebbe l’ulteriore strada del rinvio alle Sezioni unite, che avrebbero la possibilità di orientare in modo costituzionalmente conforme l’applicazione nel tempo delle modifiche normative in tema di esecuzione della pena.

Solo un cenno, per concludere, alle notizie di stampa secondo cui il Governo, per risolvere proprio i profili di diritto transitorio qui analizzati, avrebbe in animo di introdurre una norma che escluda l’applicabilità delle nuove disposizioni in materia di accesso alle misure alternative ai soggetti la cui condanna sia divenuta definitiva prima dell’entrata in vigore della riforma.

Non ci pare che, quand’anche la prospettata modifica venisse davvero approvata, essa sarebbe in grado di risolvere in modo definitivo la questione. Se si ritiene che l’incidenza delle modifiche in materia di misure alternative sulla stessa natura della sanzione comporti l’applicazione del principio di irretroattività in materia penale, ciò comporta che il nuovo regime può essere applicato solo in relazione a procedimenti per fatti commessi dopo la riforma, posto che il momento rispetto a cui valutare la prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie è (ovviamente) quello della commissione del fatto, ove si cristallizza l’affidamento del consociato sulla disciplina a lui applicabile, e non già quello successivo in cui la condanna diventa definitiva. La soluzione in discussione in ambito governativo rappresenta il tentativo di placare almeno in parte le obiezioni da più parti sollevate nei confronti della nuova disciplina, ma non fa davvero i conti con la sostanza dei problemi in gioco, ed anzi pare a ben vedere poco coerente con i principi della successione di leggi nel tempo e con le rationes di tutela che ne stanno a fondamento.

 

 


[1] Sui profili di diritti transitorio, cfr. in particolare il lavoro di V. Manes, L’estensione dell’art. 4-bis ord. pen. ai delitti contro la P.A.: profili di illegittimità costituzionale, in questa Rivista, fasc. 2/2019, p. 113 ss.

[2] C. cost. 41/2018, in questa Rivista, 16 aprile 2018, con nota di D. Vicoli, Sospensione dell’ordine di esecuzione e affidamento in prova: la Corte costituzionale ricuce il filo spezzato dal legislatore (fasc. 4/2018, p. 89 ss.).

[3] Cass. SU., 17.7.2006, n. 24561.

[4] § 7 del “considerato in diritto”.

[5] § 12 del “considerato in diritto”.

[6] Per un commento alla decisione, cfr. per tutti V. Manes e V. Napoleoni, Incostituzionali le restrizioni ai colloqui difensivi dei detenuti in regime di “carcere duro”: nuovi tracciati della Corte in tema di bilanciamento dei diritti fondamentali, in questa Rivista, 3 luglio 2013.

[7] Cfr. in particolare in questo senso F. Viganò, Il nullum crimen conteso: legalità 'costituzionale' vs. legalità 'convenzionale'?, in questa Rivista, 5 aprile 2017, p. 14: “Prevedibile almeno nelle sue linee essenziali deve essere, altresì, il regime di esecuzione della pena (da sempre escluso dall’alveo del principio di legalità penale dalla costante giurisprudenza della nostra Corte costituzionale): profilandosi ad es. una violazione della legalità convenzionale allorché tale regime muti inopinatamente, e con effetto retroattivo, durante l’esecuzione della pena, e renda la medesima assai più gravosa di quanto fosse ragionevolmente prevedibile ex ante” (l’autore ricava tale principio dalla sentenza Del Rio Prada della Corte EDU, su cui ci soffermeremo tra brevissimo).

[8] Per questa individuazione dei “confini interni della materia penale tra diritto sostanziale, norme processuali e disciplina dell’esecuzione”, cfr. F. Mazzacuva, Le pene nascoste – Topografia delle sanzioni punitive e modulazione dello statuto garantistico, 2018, 2017, p. 277 ss., e volendo L. Masera, La nozione costituzionale di materia penale, 2018, p. 92 ss.  

[9] Corte EDU, GC ; 21.10.2013, Del Rio Prada c. Spagna, § 89: “La Cour n’exclut pas que des mesures prises par le législateur, des autorités administratives ou des juridictions après le prononcé d’une peine définitive ou pendant l’exécution de celle-ci puissent conduire à une redéfinition ou à une modification de la portée de la « peine » infligée par le juge qui l’a prononcée. En pareil cas, la Cour estime que les mesures en question doivent tomber sous le coup de l’interdiction de la rétroactivité des peines consacrée par l’article 7 § 1 in fine de la Convention. S’il en allait différemment, les États seraient libres d’adopter – par exemple en modifiant la loi ou en réinterprétant des règles établies – des mesures qui redéfiniraient rétroactivement et au détriment du condamné la portée de la peine infligée, alors même que celui-ci ne pouvait le prévoir au moment de la commission de l’infraction ou du prononcé de la peine. Dans de telles conditions, l’article 7 § 1 se verrait privé d’effet utile pour les condamnés dont la portée de la peine aurait été modifiée a posteriori, et à leur détriment. La Cour précise que pareilles modifications doivent être distinguées de celles qui peuvent être apportées aux modalités d’exécution de la peine, lesquelles ne relèvent pas du champ d’application de l’article 7 § 1 ”.

[10] È questa anche la tesi sostenuta da V. Manes, L’estensione dell’art. 4-bis o.p., cit., che parla di modifiche “tali da determinare un mutamento qualitativo della sanzione concretamente inflitta, da ‘alternativa’ a ‘detentiva’” (p. 115).