21 febbraio 2018 |
Sulla minaccia di un "male giusto" nel delitto di estorsione, tra abuso del diritto e approfittamento dell’altrui soggezione
Cass., Sez. II, sent. 17 febbraio 2017 (dep. 13 marzo 2017), n. 11979, Pres. Cammino, Rel. Ariolli, Ric. Remedia
Contributo pubblicato nel Fascicolo 2/2018
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1. La pronuncia di legittimità in commento, depositata dalla Sez. II della Cassazione lo scorso anno, ci offre l’occasione per svolgere una breve riflessione su un tema da tempo oggetto di attenzione da parte della dottrina giuridica, penalistica e non solo: costituisce minaccia la prospettazione alla vittima di un “male giusto”, ossia del futuro esercizio di un diritto da parte dell’agente, utilizzata a fini coercitivi?
Tale questione viene in particolare affrontata – e positivamente risolta – nella sentenza in epigrafe in relazione al delitto di estorsione, oltre che, in seconda battuta, a quello di turbativa d’asta ex art. 353 c.p.: delitti che, secondo la Cassazione, sono entrambi integrati nel caso in cui un soggetto, avendo ottenuto l’assegnazione di un immobile a seguito di asta giudiziaria indetta nell’ambito di un procedimento di esecuzione civilistico, consegua dal debitore esecutato il versamento di una somma in cambio della propria rinuncia a proseguire la procedura sino all’aggiudicazione definitiva.
Ma partiamo dal principio e proviamo a ricostruire, con un po’ più di precisione, il caso di specie.
2. Nella vicenda in esame l’imputato, avvocato di professione, legittimamente partecipa, quale unico concorrente, a un’asta giudiziaria indetta dal Tribunale di Sassari, ottenendo così l’aggiudicazione del bene esecutato – nello specifico, un immobile, che costituiva casa di abitazione del debitore – in favore di “persona da nominare”. Successivamente, lo stesso si mette subito in contatto con il debitore e, asserendo di curare gli interessi di una presunta società immobiliare, gli propone di riacquistare l’immobile a un prezzo decisamente superiore rispetto a quello di aggiudicazione (ben 45.000,00 euro, contro i 28.000,00 di aggiudicazione).
Nondimeno, dinanzi all’addotta impossibilità dell’espropriando di procedere all’acquisto, l’imputato gli prospetta ulteriormente la possibilità di rinunciare all’aggiudicazione − e di posticipare così l’esito della procedura − in cambio del versamento immediato di 8.500 euro; in alternativa, la società avrebbe reso definitiva l’aggiudicazione, versando alla procedura il corrispettivo dovuto, e il debitore avrebbe perso la propria abitazione.
Per evitare tali nefaste conseguenze, dunque, il debitore acconsente al pagamento, versando concretamente 4.000,00 euro a titolo di acconto della somma richiesta al fine di interrompere la procedura esecutiva.
3. Alla luce di tali fatti, i giudici di prime e di seconde cure ritengono pienamente sussistenti gli elementi costitutivi dei delitti di cui agli artt. 629 (estorsione) e 353 c.p. (turbata libertà degli incanti), in continuazione tra loro.
La difesa presenta quindi ricorso in Cassazione, denunciando – tra gli altri motivi del ricorso – l’assenza degli estremi dell’ingiustizia del profitto e dell’ingiustizia della minaccia, entrambi richiesti dall’art. 629 c.p.: mediante l’accordo stipulato con il debitore, sostiene il difensore, l’imputato si è infatti limitato a disporre legittimamente di una posizione soggettiva tutelata dall’ordinamento, di cui era divenuto titolare, nel pieno rispetto dei principi generali che regolano la libertà contrattuale dei privati. Di conseguenza, non può riconoscersi nel caso di specie la sussistenza di una minaccia “ingiusta”, posto che il debitore esecutato, pure laddove non avesse acconsentito allo “scambio” proposto dal ricorrente, non avrebbe subito alcun “male” antigiuridico, poiché le uniche conseguenze sarebbero state quelle imposte dalla legge a seguito dell’esito positivo della procedura di aggiudicazione.
4. A giudizio della Corte di cassazione, tuttavia, la qualificazione giuridica attribuita ai fatti dai giudici di merito deve dirsi corretta.
Anzitutto, con riferimento al delitto di estorsione la Suprema Corte nega che possano trovare accoglimento le doglianze del ricorrente volte a far rilevare l’insussistenza nel caso in esame di alcuni degli elementi costitutivi della fattispecie, affermando che, anzi, le dinamiche del caso concreto come sopra descritto sono perfettamente idonee ad integrare la figura criminosa di cui all’art. 629 c.p.
4.1. La Corte, in primo luogo, esclude che il tipo di accordo concluso dall’imputato con il debitore esecutato potesse costituire legittimo esercizio dell’autonomia negoziale attribuita dall’ordinamento ai privati: anche la libertà negoziale, invero, benché sicuramente consenta ai privati di concludere contratti atipici per meglio regolare i propri interessi, trova un limite nella necessità di soddisfare finalità meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico, e in particolare risulta preclusa laddove sussistano espressi divieti di carattere positivo, come avviene nell’ambito del procedimento di espropriazione immobiliare.
La natura del procedimento di esecuzione, all’interno del quale il privato-debitore si trova in uno stato di completo assoggettamento rispetto al potere pubblico, è infatti tale da non permettere “private intrusioni”: come afferma la Corte di legittimità, cioè, “allorché la tutela del diritto soggettivo si scontra con la tutela della libertà, lo Stato-ordinamento non ammette alternative, non rilascia deleghe, né temporanee investiture ad altri e solo con i propri organi e procedure consente che la volontà renitente sia forzata, con un accorto dosaggio di sostituzione e coercizione”[1].
Da tale osservazione discende che l’unico esito della procedura esecutiva accettabile per l’ordinamento, una volta che detti poteri coercitivi siano stati attivati, è quello derivante dal regolare svolgimento dell’iter della procedura giurisdizionale-coattiva, il cui corso non può e non deve in alcun modo essere deviato da interferenze di carattere privato.
È pertanto da escludersi in radice l’esistenza di una posizione soggettiva disponibile in capo al destinatario dell’aggiudicazione (provvisoria) del bene esecutato; al contrario, sostiene la Corte, quest’ultimo appare titolare nei confronti dell’ordinamento di un vero e proprio obbligo di acquistare il bene mediante l’integrale versamento del prezzo, tant’è che in caso di inadempienza la stessa legge (all’art. 587 c.p.c.) prevede che la procedura incameri la cauzione versata al momento dell’aggiudicazione a titolo di “multa” (somma che andrà poi a comporre la massa attiva da distribuirsi ai creditori, ai sensi dell’art. 509 c.p.c.)[2].
In conclusione, dal complesso delle disposizioni che regolano il processo esecutivo è possibile ricavare un generale divieto di “mercimonio” della situazione di vantaggio attribuita dall’ordinamento al soggetto privato a seguito dell’aggiudicazione del bene, il quale costituirebbe uno specifico sviamento della finalità tipica del procedimento di vendita forzata e si porrebbe altresì in contrasto con il limite dell’utilità sociale imposto dall’art. 42 c. 2 della Costituzione all’autonomia privata.
L’esistenza di un simile divieto rende di conseguenza ingiusto il profitto realizzato dal ricorrente in quanto contra ius, posto che da un lato costui non era legittimato a pretenderne l’esborso, dall’altro il debitore esecutato non era tenuto a versarlo in corrispettivo: e l’ingiustizia deriva, nel caso di specie, proprio dall’utilizzo di mezzi illeciti, in quanto “utilizzare un procedimento civile per scopi estranei alle sue finalità e per conseguire un risultato economico che non gli appartiene rende necessariamente ingiusto quel ricavato, in quanto ingiusto è il fine a cui tende”[3].
4.2. A fronte dell’ingiustizia del profitto, la Cassazione mette in evidenza l’infondatezza anche delle doglianze concernenti l’effettiva configurabilità della condotta di minaccia; correttamente, infatti, i giudici hanno ravvisato la prospettazione di un male ingiusto nella prosecuzione della procedura esecutiva, male che tra l’altro dipendeva dalla volontà dell’imputato (in quanto il trasferimento definitivo del bene era condizionato al versamento integrale del prezzo di vendita).
Neanche vale a escludere la minaccia il fatto che il debitore esecutato, in base a quanto asserito dal ricorrente, avrebbe a sua volta ricavato un vantaggio dall’accordo stipulato, ossia avrebbe ottenuto una postergazione del termine finale di conclusione della procedura esecutiva. Da una parte, infatti, si deve considerare che il prolungamento della fase di vendita avrebbe comunque comportato un aumento degli interessi dovuti dal debitore, e che la vendita successivamente realizzatasi avrebbe potuto anche portare a un ricavo inferiore rispetto al prezzo della prima aggiudicazione, di talché poteva ben essere che la situazione complessivamente derivante dall’accordo comportasse uno svantaggio per il debitore; dall’altra, tale considerazione appare irrilevante, in quanto la minaccia, quale elemento costitutivo del delitto di estorsione, non è in ogni caso esclusa dal solo fatto che lo strumento utilizzato dall’agente per ottenere il profitto ingiusto possa al contempo assicurare alla persona offesa una qualche utilità[4].
4.3. Nessun dubbio può poi nutrirsi, a parere della Cassazione, sull’esistenza del requisito dell’ingiustizia del danno subito dalla vittima, che nel caso di specie deve individuarsi proprio nel corrispettivo economico da questa versato al ricorrente (nello specifico, pari a 4.000,00 euro), sfornito, come si è visto, di alcun fondamento giuridico, in quanto ex lege non dovuto.
4.4. Da ultimo, la Corte riconosce anche la piena sussistenza nel caso concreto dell’elemento soggettivo, ossia del dolo di estorsione, in quanto l’intento dell’imputato di utilizzare strumentalmente il procedimento di vendita forzata al fine di realizzare un ingiusto profitto può agevolmente desumersi dalle modalità attraverso le quali era avvenuto l’incontro tra le due parti (e, in particolare, dall’avere il ricorrente contattato il debitore immediatamente dopo l’aggiudicazione, asseritamente per conto di una società immobiliare di cui in giudizio non era emersa la reale esistenza, dapprima proponendogli un acquisto evidentemente impossibile e strumentale e successivamente manifestandogli la proposta estorsiva).
Un ulteriore elemento dimostrativo del reale disinteresse dell’imputato per la procedura esecutiva e dell’esclusivo intento di fare “mercimonio” dell’aggiudicazione ai danni del debitore espropriando viene dalla Corte rinvenuto, inoltre, nell’evidente sproporzione tra il prezzo di aggiudicazione e quello che il ricorrente propose inizialmente al debitore per riacquistare la casa, così come dall’analoga sproporzione tra la somma richiesta per rinunciare all’aggiudicazione (6.000,00 euro al netto della cauzione versata alla procedura, pari a quasi un quarto del valore dell’intero bene) e il vantaggio ottenuto dalla vittima (permanere all’interno dell’immobile per pochi mesi in attesa della nuova asta). È pertanto evidente, conclude la Corte di legittimità, che il ricorrente “approfittò della situazione di obiettiva difficoltà in cui il debitore esecutato si trovava, al fine di conseguire un ingiusto profitto”[5].
5. In continuazione con l’estorsione, anche il delitto di turbata libertà degli incanti appare alla Suprema Corte perfettamente configurabile nel caso di specie.
Il reato punito ai sensi dell’art. 353 c.p., infatti, è volto a tutelare il regolare svolgimento di aste pubbliche e licitazioni private da qualsiasi turbamento che possa verificarsi tanto nel momento stesso in cui la gara si svolge, quanto durante tutto il suo complesso iter procedimentale o persino al di fuori di essa[6]. Ciò che rileva è che il comportamento in concreto tenuto dall’agente – posto in essere mediante una delle modalità tipiche descritte dalla norma: violenza, minaccia, doni, promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti – abbia leso gli interessi della pubblica amministrazione sottesi al procedimento di esecuzione forzata e, in particolare, abbia influito sulla regolare procedura della stessa (senza che sia necessario provare che ne abbia concretamente alterato i risultati)[7].
Nel caso di specie l’imputato aveva, mediante minaccia, costretto il debitore esecutato ad accettare una proposta volta alla rinuncia all’aggiudicazione: da tale azione la procedura aveva certamente subito un effettivo turbamento, che aveva determinato l’esito infruttuoso della stessa (nella quale l’imputato era l’unico concorrente) e frustrato in tal modo l’interesse della p.a. a che la gara si svolgesse regolarmente, con il minor dispendio di tempo possibile e raggiungendo gli scopi cui essa era finalizzata.
Oltre a ciò, aggiunge la Cassazione, un “ulteriore segmento antecedente di turbativa” deve peraltro rintracciarsi già nel “chiaro e accertato intento del ricorrente di utilizzare la procedura di vendita esclusivamente quale strumento per conseguire fini diversi da quelli alla quale la stessa era diretta”; è l’avvenuta “distorsione” dell’utilizzo del procedimento esecutivo da parte dell’imputato mediante la vicenda estorsiva, dunque, ad aver comportato quella lesione dell’interesse statale alla celere definizione dei procedimenti giudiziari che determina l’applicabilità del reato di cui all’art. 353 c.p.: reato che, tuttavia, nel caso di specie doveva riconoscersi già estinto per avvenuta prescrizione.
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6. Come abbiamo visto, secondo la Suprema Corte l’aver l’imputato strumentalizzato la procedura esecutiva al fine di ottenere da parte del debitore esecutato un pagamento non dovuto costituisce comportamento penalmente rilevante tanto con riferimento al delitto di estorsione, quanto con riferimento a quello di turbativa d’asta. Tale soluzione ha evidentemente richiesto, da parte della Corte, una positiva soluzione del preliminare quesito inerente alla possibilità di qualificare la specifica condotta contestata al ricorrente quale condotta di minaccia, che costituisce modalità della condotta comune a entrambe le fattispecie richiamate.
7. Una corretta valutazione della vicenda in esame, ci pare, non può pertanto prescindere da un’adeguata considerazione delle caratteristiche che tale condotta assume all’interno del nostro ordinamento. E, del resto, proprio sull’impossibilità di rintracciare una vera e propria minaccia nel caso di specie era incentrato uno dei motivi di ricorso in Cassazione, con il quale la difesa sosteneva che l’imputato si fosse limitato a porre in essere un legittimo atto di disposizione (ovviamente dietro corrispettivo) di una propria posizione soggettiva di favore.
Si tratte di problematiche già sollevate in passato dinanzi alla Corte di cassazione, e che richiamano, in particolare, il ben noto caso Corona, conclusosi con sentenza definitiva di condanna nel 2011[8]: anche in quella sede i giudici di legittimità avevano considerato che le condotte del reporter − che, lo ricordiamo, in più occasioni aveva proposto a diversi personaggi pubblici l’acquisto di fotografie che li ritraevano in atteggiamenti compromettenti, prospettando in caso contrario la vendita delle stesse a testate giornalistiche – fossero state correttamente inquadrate nel delitto di estorsione, affermando a chiare lettere il principio secondo cui anche la minaccia di esercitare un diritto, qualora sia diretta a conseguire scopi non consentiti o prestazioni non dovute, integra il delitto di estorsione.
La sentenza in commento è pertanto un’ulteriore dimostrazione dell’intenzione della Suprema Corte di considerare come potenziale oggetto della condotta di minaccia anche il male di per sé “giusto”, ossia quel male che rappresenti il legittimo esercizio da parte dell’agente di un proprio diritto o potere, che sia tuttavia esercitato non iure, e quindi in maniera incompatibile rispetto agli scopi per cui l’ordinamento attribuisce quel diritto o potere. Tale interpretazione, che evoca, secondo alcuni, la nozione di “abuso del diritto”, àncora l’ingiustizia della minaccia non solo al male prospettato, ma anche al rapporto tra il mezzo usato dall’agente (la prospettazione del male giusto) e lo scopo da lui perseguito, e troverebbe uno specifico fondamento sistematico all’interno del diritto civile, più precisamente nell’art. 1438 c.c.[9]
La traslazione di questa concezione “ampia” di minaccia sul piano del diritto penale appare del resto pienamente giustificata se si considera che, nei reati in cui la minaccia è un “mezzo” per conseguire un fine antigiuridico[10], il disvalore della fattispecie è incentrato non tanto sulla condotta di minaccia, quanto sul fatto che di essa l’agente si serva per imporre alla vittima una condizione, in modo da coartare la sua libertà di autodeterminazione[11].
Di conseguenza, così come nel caso Corona la Suprema Corte aveva ritenuto che l’ingiustizia della minaccia si desumesse dalla strumentalizzazione del diritto di cronaca per ottenere indebiti vantaggi patrimoniali[12], anche nella pronuncia in esame la Cassazione considera penalmente rilevante la condotta di chi si sia servito della propria posizione soggettiva di favore per coartare la volontà altrui e ottenere vantaggi economici non dovuti (e l’illegittimità di tale strumentalizzazione si ricaverebbe, nel caso di specie, dalle norme che, come si è visto, considerano indisponibile la posizione dell’aggiudicatario, prevedendo pesanti sanzioni civili nel caso del mancato completamento della procedura).
8. Pure alla luce delle considerazioni finora svolte, tuttavia, i contorni definitori della fondamentale nozione di minaccia penalmente rilevante appaiono tutt’altro che netti.
Muovendo dall’orientamento giurisprudenziale appena illustrato, secondo il quale costituisce minaccia per il diritto penale anche la minaccia di far valere un diritto o un potere – e quindi di un male “giusto” − in quanto si concreti in un abuso di diritto o di potere (ossia in una strumentalizzazione del diritto o del potere per ottenere vantaggi indebiti), si potrebbe infatti essere indotti a riconoscere una condotta di minaccia in ogni abuso di diritto/di potere che abbia influito sul processo motivazionale altrui, rintracciando, in simili casi, una vera e propria coazione dell’altrui volontà.
Nondimeno, valorizzando in chiave sistematica quelle fattispecie in cui l’abuso di potere è espressamente tipizzato dal legislatore − i delitti di concussione di cui all’art. 317 c.p. e il più recente delitto di induzione indebita a dare o promettere utilità di cui all’art. 319-quater c.p. (coniato dal legislatore del 2012 a seguito della “spacchettizzazione” del delitto di concussione) − non si può fare a meno di notare come il quadro in diritto appena esposto non vi si adatti perfettamente.
9. Entrambe le fattispecie appena richiamate, come è noto, vedono tra i propri elementi costitutivi l’abuso di qualità o di potere, abuso che tuttavia – come definitivamente chiarito dalle Sezioni Unite Maldera nel 2014 − solo nel caso della concussione si concreta in una condotta di minaccia, comportando un vero e proprio effetto di costrizione del soggetto passivo: nel caso del nuovo delitto configurato dall’art. 319-quater c.p., invece, l’abuso del pubblico ufficiale (e, dunque, la strumentalizzazione dei suoi poteri o della sua qualifica per perseguire scopi diversi da quelli riconosciuti dall’ordinamento[13]), pur ponendo il soggetto extraneus alla p.a. in uno stato di soggezione, non è concretamente idoneo a coartare la sua volontà, risolvendosi in una meno pregnante induzione.
La semplice esistenza del delitto di induzione indebita nel nostro ordinamento, pertanto, sembrerebbe non conciliarsi con l’orientamento, ormai consolidato in dottrina e giurisprudenza, che riconosce l’esistenza di una minaccia nella mera prospettazione di un lecito esercizio di diritti o poteri per perseguire scopi illegittimi, in quanto oggetto di criminalizzazione attraverso la nuova figura delittuosa sono proprio quegli abusi che, non producendo un concreto effetto di coazione sulla psiche della vittima, non si traducono in condotte di minaccia.
Ponendosi dunque il problema di scriminare l’abuso costrittivo da quello induttivo, le Sezioni Unite Maldera hanno da ultimo fatto proprio il criterio del danno/vantaggio[14], chiarendo cioè che deve ritenersi indotto, e non coartato attraverso minaccia, quel soggetto che, pur subendo un abuso da parte del pubblico funzionario, approfitti di tale abuso al fine di perseguire un vantaggio indebito.
10. Sembra allora legittimo chiedersi, alla luce di tali brevi riflessioni, se il principio enunciato dalle Sezioni Unite non debba logicamente valere anche al di fuori dell’ambito dei delitti contro la pubblica amministrazione, e più in particolare in materia di estorsione; con conseguente esclusione di una minaccia – e, di conseguenza, con esclusione in questo caso di qualsiasi responsabilità penale – laddove il soggetto, pur approfittando di una propria posizione di supremazia per ottenere vantaggi personali, non prospetti ad altri un male ingiusto, ma piuttosto un indebito vantaggio[15].
Proprio il ricorso al criterio del vantaggio in un caso come quello adesso esaminato – criterio, come si è visto, espressamente rifiutato dalla Suprema Corte, che nella pronuncia in commento non ha esitato ad affermare che “la minaccia, quale elemento costitutivo del delitto di estorsione, non è esclusa dal solo fatto che lo strumento utilizzato per la realizzazione di un profitto ingiusto sia la stipulazione con la persona offesa di un accordo che assicuri, in ipotesi, a questa una qualche utilità”[16] – avrebbe allora potuto condurre a una soluzione diversa. E infatti la posizione del debitore esecutato, ritenuto vittima di minaccia dalla Corte di cassazione, potrebbe essere agevolmente riletta in termini di vantaggio, considerando che attraverso l’accordo stipulato con il soggetto attivo costui impediva il completamento della procedura esecutiva (nella quale, lo ricordiamo, l’imputato era stato l’unico partecipante) e, allo stesso tempo, ritardava il soddisfacimento dei propri creditori: esiti che senz'altro possono essere ritenuti ingiusti.
Per quanto possibile apprendere dagli scarni riferimenti in fatto desumibili dalla sentenza di legittimità, pertanto, ci sembra dunque che nella vicenda in esame vi fosse concretamente un qualche spazio per concludere che il soggetto passivo si sia risolto ad accettare lo scambio proposto dall’agente perché, pur certamente subendo un certo grado di pressione psicologica, abbia ritenuto in un qualche modo conveniente tale accordo. La sua situazione non ci pare, del resto, particolarmente distante da quella dell’imprenditore che accetti di pagare una tangente al pubblico ufficiale per non vedersi contestare gravi infrazioni della normativa giuslavoristica, alle quali sarebbero seguite sanzioni pecuniarie particolarmente afflittive e persino la sospensione dell’attività imprenditoriale: fattispecie nella quale tuttavia le Sezioni Unite Maldera non hanno rinvenuto un’effettiva condotta di minaccia, bensì solamente un abuso induttivo.
[1] Cfr. p. 6 della sentenza in commento.
[2] A questo si aggiunge, peraltro, che l’art. 177 disp. att. c.p.c. (titolato “dichiarazione di responsabilità dell’aggiudicatario”) prevede inoltre che l’aggiudicatario inadempiente sia ulteriormente condannato al pagamento della differenza tra il prezzo da lui offerto e non versato e il prezzo minore per il quale è successivamente avvenuta la vendita.
[3] Cfr. p. 9 della sentenza in commento. La Suprema Corte si richiama, del resto, a consolidata giurisprudenza di legittimità che, in tema di estorsione, riconosce che l’elemento dell’ingiusto profitto si individua “in qualsiasi vantaggio, non solo di tipo economico, che l’autore intende conseguire, e che non si collega a un diritto o è perseguito con uno strumento antigiuridico, o ancora con uno strumento legale ma avente uno scopo diverso” (cfr. su tal punto Cass. pen., Sez. II, sent. 17 novembre 2005, n. 29563; Cass. pen., Sez. II, sent. 31 marzo 2008, n. 16658).
[4] In questi termini già Cass. pen., Sez. II, sent. 11 dicembre 2008, n. 10542; Cass. pen., Sez. II, sent. 20 aprile 2010, n. 16656.
[5] Cfr. p. 12 della sentenza in commento.
[6] Così ad es. Cass. pen., Sez. VI, sent. 12 dicembre 2005, n. 11628.
[7] In questo senso cfr. Cass. pen., Sez. II, 23 giugno 2016, n. 43408; Cass. pen., Sez. VI, 27 settembre 2913, n. 41365.
[8] Cass. pen., Sez. II, sentenza 20 ottobre 2011 (dep. 24.11.2011), n. 43317, Pres. Esposito, Rel. Prestipino, ric. Corona, già pubblicata su questa Rivista con segnalazione di L. Pistorelli, La sentenza della Cassazione sul caso Corona, in questa Rivista, 22 dicembre 2011.
[9] Il quale considera causa di annullamento del contratto anche la “minaccia di far valere un diritto” che sia “diretta a conseguire vantaggi ingiusti”; per questa considerazione cfr. G.L. Gatta, La minaccia. Contributo allo studio delle modalità della condotta penalmente rilevante, Roma, 2013, p. 193 ss.
[10] Per la distinzione tra minaccia-fine e minaccia-mezzo cfr. G.L. Gatta, La minaccia, cit., p. 20 ss.
[11] Si rimanda ancora alle ampie osservazioni svolte da G.L. Gatta, La minaccia, cit., p. 185 ss.
[12] A parere della Corte, infatti, l’unica forma legittima di utilizzazione commerciale di dati personali altrui (come l’utilizzo di fotografia, pur legittimamente detenute) è rappresentata dalla pubblicazione giornalistica, motivo per cui qualsiasi altro utilizzo economico degli stessi rappresenta una deviazione dai fini connaturati al diritto di cronaca; per una riflessione più approfondita sulla vicenda si rimanda a D. Tarantino, La strumentalizzazione del diritto di cronaca per finalità contra ius: estorsione?, in questa Rivista, 13 febbraio 2012.
[13] Per una più ampia riflessione su questi concetti si può rimandare a C. Benussi, Diritto penale della pubblica amministrazione, Padova, 2016, p. 196 ss., p. 379 ss.
[14] Cass. Pen., SS.UU., sentenza 24 ottobre 2013 (dep. 14.3.2014), n. 12228, Pres. Santacroce, Rel. Milo, ric. Maldera, con commento di G.L. Gatta, Dalle Sezioni Unite il criterio per distinguere concussione e ‘induzione indebita': minaccia di un danno ingiusto vs. prospettazione di un vantaggio indebito, in questa Rivista, 17 marzo 2014.
[15] Non si ignorano tuttavia le – ampiamente fondate – perplessità manifestate in dottrina sull’adeguatezza del criterio del danno/vantaggio prescelto dalle Sezioni Unite, il quale fa riferimento a elementi non previsti dalla fattispecie incriminatrice e non appare realmente idoneo a distinguere tra le attigue ipotesi di concussione/induzione/corruzione; cfr. a tal riguardo C. Benussi, Diritto penale della pubblica amministrazione, cit., p. 403.
[16] Cfr. p. 9 della sentenza in commento.