ISSN 2039-1676


30 ottobre 2017 |

Disallineamenti e allineamenti forzati: ultime novità in tema di sospensione dell’esecuzione della pena detentiva e affidamento in prova "allargato"

Corte d’Appello di Bologna, Sezione Penale Feriale, ord. 5 settembre 2017 (dep. 08 settembre 2017), Giudd. Valenti, Pederiali, Gobbi

Contributo pubblicato nel Fascicolo 10/2017

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0. Con l’ordinanza in commento la Corte d’Appello di Bologna ha respinto una richiesta di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena con la quale il difensore aveva chiesto che a favore del proprio assistito – in forza di una consolidata interpretazione sistematico-evolutiva del combinato disposto degli artt. 47 co. 3-bis ord. pen. e 656 co. 5 c.p.p. – fosse dalla Corte riconosciuto in quattro anni (anziché in tre, come stabilisce la lettera della legge) il limite di pena ai fini della sospensione dell’ordine di esecuzione dal momento che tale richiesta era correlata a un’istanza di affidamento ex art. 47 co. 3-bis, ossia estesa a pene fino a quattro anni.

Tale ordinanza si inserisce, dunque, nel filone giurisprudenziale che con esiti alterni affronta la questione del disallineamento tra le soglie di pena previste dall’art. 656 co. 5 c.p.p. per la sospensione dell’esecuzione della pena (tre anni) e quelle invece previste dal nuovo comma 3-bis dell’art. 47 ord. pen. (introdotto dal d.l. 146/2013) in tema di accesso all’affidamento cd. “allargato” (quattro anni). I giudici di Bologna, in particolare, come si vedrà, discostandosi dal più diffuso orientamento giurisprudenziale, hanno espressamente escluso l’utilizzo del criterio dell’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata quale via per il riallineamento delle due disposizioni.

 

1. I fatti. Tramite il suo difensore l’istante lamentava che ­ – a fronte di una pena inflitta di tre anni e tre mesi, dunque superiore a tre anni, ma inferiore a quattro – l’ordine di carcerazione avrebbe dovuto essere corredato, in base al disposto di cui al quinto comma dell’art. 656 c.p.p., da un contestuale provvedimento di sospensione che gli consentisse di presentare, nel termine di legge, domanda di concessione di una misura alternativa alla detenzione, senza dover previamente ‘passare dal carcere’. Alla base di tale richiesta vi era il richiamo alla lettura data in più occasioni dalla Corte di cassazione secondo la quale la norma di cui all’art. 656 co. 5 c.p.p. deve essere letta in combinato disposto con il comma 3-bis dell’art. 47 ord. pen., che estende la possibilità di concedere l’affidamento in prova al servizio sociale a condannati a pena (anche residua) entro i quattro anni[1].     

 

2. La questione. Oggetto dell’esame della Corte di Appello di Bologna è stata, dunque, la condivisibilità dell’approccio giurisprudenziale richiamato dall’istante, che, pur adottato da diverse pronunce della Cassazione, risulta – per stessa ammissione della Suprema Corte[2] – in contrasto con il dato letterale della legge.  Risultano chiare le ragioni della giurisprudenza di legittimità che invitano a riallineare i termini di pena previsti dall’art. 656 co. 5 c.p.p. per la sospensione dell’ordine di esecuzione (3 anni) con quelli oggi previsti dall’art. 47 co. 3-bis ord. pen. per il nuovo affidamento cd. allargato (4 anni). Tale situazione, infatti, crea palesi storture nel sistema, che, paradossalmente, da un lato con il nuovo comma 3-bis amplia il percorso deflativo in uscita e, dall’altro, con il mancato coordinamento del comma 5 dell’art. 656 c.p.p., sembra incentivare gli ingressi in carcere.  Meno condivisibile, tuttavia, è apparso ai giudici di Bologna il metodo scelto per tale riallineamento: un’interpretazione costituzionalmente orientata del combinato disposto delle due norme.

 

3. Il contesto normativo. Animato da finalità di sfoltimento della popolazione carceraria e di limitazione dei danni causati dalle pene detentive brevi, opera nel nostro ordinamento l’istituto della sospensione dell’ordine di esecuzione della pena, disciplinato dall’art. 656 c.p.p[3]. Tale disposizione, per quanto qui interessa, prevede al quinto comma che Se la pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non è superiore a tre anni, quattro anni nei casi previsti dall'articolo 47-ter, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354, o sei anni nei casi di cui agli articoli 90 e 94 del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni, il pubblico ministero, salvo quanto previsto dai commi 7 e 9, ne sospende l'esecuzione”.

Parallelamente e con finalità in parte coincidenti opera la misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, disciplinata all’art. 47 ord. pen. Questo istituto, infatti, fortemente ispirato alla figura della probation di common law[4], aveva al momento della sua introduzione –  e conserva tuttora –  un duplice ambizioso obiettivo: evitare agli autori di reati non particolarmente gravi (così individuati sulla base del quantum della condanna loro inflitta) i danni derivanti dal contatto con il mondo carcerario e, allo stesso tempo, sfoltire – evitando gli ingressi – la popolazione carceraria[5].

A complicare, tuttavia, il rapporto tra queste due disposizioni è intervenuto il d.l. 146/2013, poi convertito nella l. 10/2014. L’approvazione di tale legge è stata, nella sostanza, una delle risposte più significative del nostro legislatore alle richieste provenienti dalla Corte EDU che, con le sentenze Sulejmanovic e Torreggiani[6], aveva condannato il nostro Paese esortandolo a risolvere al più presto il problema strutturale del sovraffollamento carcerario [7], per non incorrere in ulteriori violazioni dell’art. 3 CEDU. È dunque con queste finalità che il d.l. 146/2013 ha aggiunto il comma 3-bis all’art. 47 ord. pen., allargando il novero dei possibili destinatari dell’affidamento in prova.  Oggi la norma così recita: L'affidamento in prova può, altresì, essere concesso al condannato che deve espiare una pena, anche residua, non superiore a quattro anni di detenzione, quando abbia serbato, quantomeno nell'anno precedente alla presentazione della richiesta, trascorso in espiazione di pena, in esecuzione di una misura cautelare ovvero in libertà, un comportamento tale da consentire il giudizio di cui al comma 2".

Già a prima vista, il mancato coordinamento tra la novella legislativa del 2013 e la invariata formulazione dell’art. 656 co. 5 c.p.p. è evidente e desta perplessità. Sorvolando, per il momento, sulle ragioni di tale disallineamento, un dato oggettivo emerge: la diversità tra il limite dei tre anni di pena previsto per la sospensione ex art. 656 co. 5 e il limite di quattro anni per l’accesso alla nuova forma di affidamento (cd. affidamento allargato) crea nella prassi una situazione peculiare (ai limiti dell’incostituzionalità[8]) per i condannati a una pena detentiva tra i tre e i quattro anni che abbiano fatto richiesta di accesso alla misura alternativa ex art. 47 co. 3-bis. A costoro, infatti, viene consentito l’accesso all’affidamento allargato, ma non la sospensione dell’ordine di esecuzione, con la conseguenza che devono necessariamente “transitare” dal carcere, pur essendo già stati ritenuti meritevoli della predetta misura alternativa.

La obbligatorietà di tale, pur breve, soggiorno obbligato in carcere stride con il contesto fortemente deflattivo, volto allo sfoltimento della popolazione carceraria, cui tutta la più recente legislazione penitenziaria si ispira e in cui sicuramente la novella legislativa del 2013 si inserisce[9].

La dottrina, posta davanti a tale questione, si è interrogata in merito alla volontarietà o accidentalità di un tanto palese disallineamento normativo, domandandosi se il mancato coordinamento fosse frutto di una “svista” del legislatore che, chiamato a rispondere in tempi brevi alla drammatica situazione di sovraffollamento delle carceri e alle critiche provenienti dalla Corte europea, avesse trascurato il profilo del coordinamento con l’art. 656 co. 5[10]. Altri autori, invece, hanno ritenuto che tale disallineamento, visto anche il vaglio parlamentare in sede di conversione e gli appositi emendamenti presentati in tema e non accolti, fosse frutto di una deliberata – per quanto discutibile – scelta politica animata da intenti di distinzione tra i destinatari della misura alternativa in questione: ipotesi corroborata anche dalla previsione per le due forme di affidamento di un diverso lasso temporale quale periodo di osservazione del condannato (un mese per l’affidamento ordinario, un anno per l’affidamento allargato)[11].

 

4. L’interpretazione giurisprudenziale e le sue evoluzioni. La giurisprudenza di legittimità, spesso chiamata a pronunciarsi su problemi di questo genere, ha negli anni tendenzialmente seguito la via dell’interpretazione in chiave sistematico-evolutiva del combinato disposto dei due articoli. In particolare, la Corte di cassazione, ritenendo irragionevole che il comma 3-bis dell’art. 47 ord. pen. operasse in una direzione contraria alla finalità rieducativa della pena e all’obiettivo della riduzione degli ingressi in carcere, pur consapevole del contrasto con il dato letterale, ha in più occasioni ritenuto che i due articoli andassero letti in modo da evitare storture di sistema. L’orientamento prevalente reputa che il limite previsto in astratto per la sospensione dell’esecuzione ai sensi dell’art. 656 co. 5 c.p. “sia quello della pena, anche residua, non superiore a quattro anni, quando la sospensione sia richiesta ai sensi dell’art. 47 co, 3-bis ord. pen., cioè in correlazione con un’istanza si affidamento in prova”. Questo perché “il richiamo dell’art. 656 co. 5 secondo periodo c.p.p. all’art. 47 ord. pen. nella sua interezza, consente di interpretare la prima norma avvalendosi del criterio sistematico e di quello evolutivo, pur in mancanza del dato formale di una sua esplicita modifica che, tenendo conto del recente inserimento del comma 3-bis nell’art. 47 ord. pen., introduca il richiamo specifico dell’ipotesi prevista da tale nuovo comma nel testo letterale della disposizione del codice di rito[12].

La questione, lungi dall’essere così definitivamente risolta, ha tuttavia continuato a incontrare soluzioni differenti soprattutto nelle sedi di merito. Due ordinanze, in particolare – espressamente richiamate dai giudici di Bologna – meritano a nostro avviso di essere prese in considerazione per una più agevole comprensione dell’ordinanza in esame.

Seguendo un ordine cronologico, la prima che viene in luce è l’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale pronunciata dal Tribunale di Lecce del 16 marzo 2017[13]. In tale occasione il giudice dell’esecuzione ha ritenuto di non poter decidere sulla richiesta della difesa di sospendere l’ordine di esecuzione emesso dal Procuratore della Repubblica di Lecce nei confronti di un condannato alla pena di quattro anni di reclusione. Il giudice, infatti, dopo aver osservato che la difesa aveva avanzato una simile richiesta sulla scorta di un’interpretazione costituzionalmente orientata del precetto di cui all’art. 656 co. 5 c.p.p., che – come si è appena visto – sorvola sul dato letterale pur di adattare tale norma all’ assetto normativo introdotto dal nuovo art. 47 co. 3-bis ord. pen., ha ritenuto opportuno rimettere la questione alla Corte costituzionale. Nel motivare la propria richiesta il giudice di Lecce ha ritenuto in primo luogo che non vi fosse alcuna disomogeneità di situazioni soggettive alla base di un simile trattamento differenziato e che, piuttosto, comune fosse la ratio a fondamento dei due istituti. In secondo luogo ha ritenuto – sulla scia dell’interpretazione della Cassazione – che il meccanismo predisposto dall’art. 656 co. 5 c.p.p. fosse strutturalmente e funzionalmente collegato all’accesso del condannato alla misura alternativa dell’affidamento in prova (vista  l’identità degli obiettivi perseguiti e dei requisiti di minima pericolosità richiesti per l’ammissione ad entrambi gli istituti), ritenendo così che la differenza di trattamento tra chi, condannato a pena inferiore a tre anni, è ammesso all’affidamento in prova e chi, condannato a pena infraquadriennale, pur essendo ammesso all’affidamento in prova allargato, non è però allo stesso tempo destinatario della sospensione dell’esecuzione, rappresentasse una situazione di discriminazione per i secondi, irragionevolmente esclusi dal regime più favorevole dettato dall’art. 656 co. 5 c.p.p. Pertanto, giudicando non percorribile la strada dell’interpretazione costituzionalmente orientata poiché, proprio secondo il Giudice delle leggi, “l’unico tenore della norma segna il confine in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale[14] (e il testo dell’art. 656 co. 5 – anche a parere della Cassazione[15] – non lascia spazio a dubbi circa il suo tenore letterale), il giudice di Lecce ha ritenuto che, così come scritto, l’art. 656 co. 5 c.p.p. contrasti con gli artt. 3, 13 e 27 della Costituzione nella parte in cui non prevede che l’ordine di sospensione della pena debba essere emesso anche nei casi di pena non superiore a quattro anni.

Qualche mese più tardi, il 24 agosto 2017, un’ordinanza del Tribunale di Milano[16] – nelle more della decisione della Corte costituzionale – ha impostato diversamente la questione. I giudici milanesi, nel ricordare la preferenza normalmente accordata dalla Procura di Milano all’interpretazione letterale dell’art. 656 co. 5 c.p.p., hanno precisato che tale impostazione, visti i più recenti sviluppi legislativi apportati dalla legge delega n. 103/2017, dovesse essere abbandonata in favore dell’opposto orientamento dell’interpretazione sistematico-evolutiva, peraltro già autorevolmente accolto dalla Suprema Corte. Una simile inversione di rotta è apparsa necessaria ai giudici milanesi alla luce del “chiarissimo principio legislativo” introdotto appunto dalla legge n. 103/2017 che all’art. 1 co. 85 lett. c) detta linee guida in tema di “revisione della disciplina concernente le procedure di accesso alle misure alternative”, in particolar modo affermando che “il limite di pena che impone la sospensione dell’ordine di esecuzione sia fissato in ogni caso a quattro anni”. Richiamandosi, dunque, all’art. 12 delle Preleggi al Codice civile che invita l’interprete nell’applicazione della legge a non fermarsi al dato letterale ma, piuttosto, a sondare la volontà del legislatore e il contesto normativo in cui la stessa si inserisce, il Tribunale di Milano ha accolto la richiesta dell’imputato ritenendo che fosse proprio il contesto normativo ad essere cambiato rispetto al passato, essendosi affiancata alla riforma del 2013 dell’art. 47 ord. pen. la sopracitata legge delega del 2017: due segnali univoci a favore della interpretazione logico-sistematica.

 

5. La peculiarità della (coraggiosa) scelta bolognese. In un simile contesto la peculiarità del ragionamento che sta alla base dell’ordinanza della Corte d’Appello di Bologna è di tutta evidenza. I Giudici bolognesi, infatti, discostandosi sia dalla prevalente giurisprudenza di legittimità che dalle due ordinanze appena viste, hanno intrapreso una terza via che, ben ancorata alla tesi dell’interpretazione letterale, oltre a dare una differente lettura del contenuto della legge delega del 2017, non reputa nemmeno percorribile la via del quesito di legittimità costituzionale, ritenendo opportuno piuttosto un puntuale intervento del legislatore in materia.

Questi, in sintesi, i motivi dell’inammissibilità, a parere del giudice di Bologna, di un riallineamento in via interpretativa degli artt. 656 co. 5 c.p.p. e 47 co. 3-bis ord. pen.

Un primo motivo è ravvisabile nell’erronea supposizione di una sostanziale omogeneità dell’affidamento in prova ordinario e dell’affidamento in prova allargato, su cui le opposte interpretazioni giurisprudenziali fondano il loro ragionamento. I giudici di Bologna ritengono, al contrario, che tra i due istituti sussista una differenza sostanziale ravvisabile nel diverso grado di pericolosità del soggetto (riflessa nel diverso ammontare di pena) preso in considerazione per l’accesso all’una o all’altra misura. Tant’è che per l’affidamento in prova ordinario è sufficiente un mese di osservazione, per quello allargato è invece necessario un anno. Il secondo motivo addotto nell’ordinanza è la consapevolezza – o, meglio, la volontà – del legislatore del 2013 di introdurre un trattamento differenziato. Infatti, ricorda la Corte, in Parlamento in sede di conversione del decreto-legge erano stati presentati sia un espresso invito da parte del C.S.M. (reso su segnalazione della Commissione mista per lo studio dei problemi della magistratura di sorveglianza) ad allineare le due disposizioni “per ragioni di coerenza sistematica” e di finalità deflattive, sia una serie di emendamenti volti proprio all’aggiunta di uno specifico richiamo al 47 co. 3-bis nell’art. 656 co. 5 c.p.p.[17] Come si è visto, però, il legislatore ha deciso di non fare proprie queste ragioni di ordine sistematico che pure gli erano state presentate, benché nei mesi immediatamente precedenti la riforma avesse dimostrato particolare attenzione per il tema della sospensione dell’esecuzione della pena, avendo appositamente inserito all’art. 656 c.p.p. una disciplina speciale per alcune categorie di soggetti deboli, per le quali la soglia per l’ammissione alla sospensione era stata spostata a quattro anni. Ancora – e siamo così al terzo motivo – secondo i giudici di Bologna il contenuto della legge delega, lungi dal rappresentare un valido ancoraggio per la tesi dell’interpretazione sistematica, altro non è che una conferma che il limite attuale entro il quale è ammessa la sospensione dell’ordine di esecuzione è – nell’attesa dell’intervento del legislatore delegato – quello di tre anni. Infine, con un quarto motivo, l’ordinanza mette in discussione il ruolo che con un’ipotizzata interpretazione sistematica assumerebbe l’organo dell’esecuzione, incaricato del compito di valutare nel merito il comportamento del condannato, per legge normalmente attribuito al Tribunale di Sorveglianza.

Alla luce di queste ragioni i giudici hanno ritenuto insanabile in via meramente interpretativa il disallineamento, individuando invece – allo stato delle cose – quale unica via esperibile per l’auspicato coordinamento l’intervento del legislatore (peraltro espressamente invitato a tal proposito anche dalla legge delega). Parimenti hanno ritenuto manifestamente infondata, diversamente da quanto prospettato dal Tribunale di Lecce, un’eventuale questione di legittimità costituzionale ricordando che appartiene alla discrezionalità del legislatore stabilire le categorie di persone destinatarie di particolari benefici.

 

6. Conclusioni. Volendo tirare le fila di quanto sin qui visto, si può affermare che l’ordinanza della Corte d’Appello di Bologna sia, al momento, l’ultimo baluardo dell’interpretazione letterale del combinato disposto dagli artt. 656 co. 5 c.p.p. e 47 co. 3-bis ord. pen. Dinnanzi a sé ha infatti una sempre più consistente e compatta schiera di interpreti e provvedimenti che affermano – ora anche alla luce della “chiarissima” legge delega del 2017 – che il mancato coordinamento con l’art. 656 da parte del legislatore del 2013 è stato qualcosa di simile a una svista, pertanto sanabile con una lettura sistematica del contenuto della disposizione che la riallinei così – senza necessità di alcun colpo di penna del legislatore – alle esigenze di lotta al sovraffollamento carcerario che ispirano la più recente legislazione in materia.

Ora, benché la legge delega abbia simbolicamente posto fine alla discussione e l’orientamento di Bologna sia molto probabilmente destinato a soccombere, ancora due considerazioni sul disallineamento.

In primo luogo, pur essendo condivisibili le osservazioni svolte da dottrina e giurisprudenza circa l’incoerenza di un sistema che da un lato promuove la deflazione carceraria in uscita e dall’altro prevede “ingressi obbligati” per soggetti nella sostanza già ammessi alla misura alternativa, qualche perplessità sussiste circa le reali intenzioni del legislatore nel 2013. Come ricordato, infatti, dalla Corte di Appello di Bologna, le occasioni per appianare il disallineamento in sede di conversione non sono mancate. Il dubbio allora che il legislatore – senza dichiararlo apertamente – abbia optato per un trattamento differenziato utilizzando proprio come discrimine il quantum di pena inflitta rimane. Rigorose, ma non incomprensibili, apparirebbero infatti le ragioni alla base della scelta di trattare più severamente (ossia, imponendo un pur breve passaggio in carcere) chi – nei fatti – è stato ritenuto più pericoloso di altri e, come tale, sottoposto a maggiori cautele anche in sede di concessione di misura alternativa.

In secondo luogo, infine, sembra condivisibile l’atteggiamento prudenziale dei giudici di Bologna che, pur riconoscendo nella recente legge delega la chiara indicazione di un orientamento per le future scelte del legislatore, invita a non anticipare queste scelte, ricordando che il legislatore delegato potrebbe prevedere termini e condizioni non coincidenti con la mera presa d’atto dell’ammontare di pena (ad esempio, prevedendo esclusioni per casi particolari): si tratta dunque di evitare interpretazioni che – in un domani ormai auspicabilmente prossimo – potrebbero ancora una volta trovarsi in contraddizione con la legge.  

Per vedere la luce in fondo a questa lunga e discussa vicenda, non resta dunque che aspettare la risposta al quesito di legittimità costituzionale da parte del Giudice delle Leggi e l’esercizio della delega da parte del legislatore.

 


[1] Cass. Sez. I, 4 marzo 2016, n. 37848, Trani; Cass. Sez. I, 31 maggio 2016, n. 51864, Fanini.

[2] Cfr. ad esempio Cass. Sez. I, 4 marzo 2016, n. 37848 nella quale si legge che “il richiamo dell’art. 656 co. 5 secondo periodo c.p.p. all’art. 47 ord. pen. nella sua interezza, consente… di interpretare la prima norma avvalendosi del criterio sistematico e di quello evolutivo, pur in mancanza del dato formale di una sua esplicita modifica”.

[3] Cfr. A. Della Bella, Emergenza carceri e sistema penale. I decreti legge del 2013 e la sentenza della Corte cost. n. 32/2014, Giappichelli, 2014, pp. 30 ss.

[4] V., fra molti, L. Filippi, G. Spangher, M. F. Cortesi, Manuale di diritto penitenziario, IV ed., Giuffré, Milano, 2016, p. 77 ss.

[5] Cfr. A. Presutti, Sub art. 47 in F. Della Casa, G. Giostra (a cura di), Ordinamento penitenziario commentato, V ed., Cedam, 2015, p. 500 ss.

[6] Cfr. A. Della Bella, Emergenza carceri e sistema penale. cit. pp. 1 ss. In questo senso anche M. Palma, L’affidamento in prova al servizio sociale: la “terra di mezzo” tra il nuovo art. 47 co. 3-bis, ord. penit. e il vecchio art. 656, comma 5, c.p.p., in Cass. pen., fasc. 7-8/2017, pp. 2891 ss.

[7] A proposito della sentenza Torreggiani, pronunciata nella forma della ‘sentenza pilota’, cfr. per tutti F. Viganò, Sentenza pilota della Corte EDU sul sovraffollamento delle carceri italiane: il nostro paese chiamato all'adozione di rimedi strutturali entro il termine di un anno, in questa Rivista, 9 gennaio 2013. Per un quadro delle riforme con le quali il legislatore italiano, sotto la spinta della sentenza Torreggiani, ha cercato di mettere sotto controllo il sovraffollamento carcerario, cfr. G. Marinucci, E. Dolcini, Manuale di diritto penale, pt. gen., VI ed. aggiornata da E. Dolcini e G.L. Gatta, Giuffrè, Milano, 2017, p. 641 ss.    

[8] In questo senso ordinanza del G.I.P. del Tribunale di Lecce, n. 109 del 13 marzo 2017.

[9] A tal proposito E. Dolcini, La “questione penitenziaria” nella prospettiva del penalista: un provvisorio bilancio, in Riv. It. Dir. Proc. Pen, fasc. 4/2015, p. 1655 ss.

[10] M. Palma, L’affidamento in prova al servizio sociale: la “terra di mezzo” op. cit. Inoltre, L. Barontini, L’affidamento in prova al servizio sociale “allargato” e mancato “allargamento” del termine di sospensione dell’ordine di esecuzione. L’anomalia di un decreto “svuotacarceri” e che impone la carcerazione in questa Rivista, 5 febbraio 2016.

[11] A. Presutti, Sub art. 47 in F. Della Casa, G. Giostra (a cura di), Ordinamento penitenziario commentato, V ed., Cedam, 2015, p. 527: “Pare più ricavarne una precisa scelta legislativa: la preclusione mira a compensare l’ampliamento di operatività della misura non diversamente dalla previsione di un presupposto comportamentale preteso di maggiore consistenza”.

[12] Cass. Sez. I, 4 marzo 2016, n. 37848, Trani; Cass. Sez. I, 31 maggio 2016, n. 51864, Fanini.

[13] Ordinanza del G.I.P. del Tribunale di Lecce, n. 109 del 13 marzo 2017

[14] V. C. cost. sent. n. 78/2014.

[15] Cass. Sez. I, 4 marzo 2016, n. 37848, Trani; in questo senso anche Cass. Sez. I, 31 maggio 2016, n. 51864, Fanini.

[16] Tribunale di Milano, Sez. Feriale, 24 agosto 2017, ord. n. SIGE 1033/17

[17] L’emendamento presentato dagli onn. Turco, Agostinelli, Bonafede, Businarolo, Colletti, Ferraresi, Micillo e Sarti era il seguente: “al comma 1, dopo la lettera a) aggiungere il seguente: a-bis) all’art. 656 co. 5, primo periodo, le parole “tra anni, quattro nei casi previsti dall’art. 47-ter co. 1 della legge 26 luglio 1975 n. 354” sono sostituite con le seguenti “quattro anni”.