15 aprile 2016 |
La disciplina dei reati tributari al vaglio della Corte di giustizia UE
Gip. Varese, ord. 30 ottobre 2015, n. 588, giud. Sala (imp. Scialdone)
1. Di grande interesse si rivela l'ordinanza con la quale il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Varese ha rimesso alla Corte di giustizia UE una serie di questioni interpretative relative al d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74. Tali questioni - dopo la celebre sentenza Taricco - chiamano nuovamente in causa le garanzie sottese al principio di legalità ed il ruolo del primato del diritto UE sulle norme penali nazionali, in un ambito, quello della protezione degli interessi finanziari dell'Unione, tradizionalmente caratterizzato dal massimo grado di permeabilità dell'ordinamento interno agli interventi sovranazionali.
L'interesse delle domande pregiudiziali in esame deriva altresì dal fatto che la citata disciplina dei reati tributari (ed in particolare il reato di «omesso versamento di IVA» ex art. 10-ter, per il quale si procede nel giudizio a quo) è stata di recente oggetto di una profonda revisione ad opera del d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158[1]; revisione che ha comportato anche taluni interventi di depenalizzazione, rilevanti dunque anche in relazione a episodi - come quelli in esame - accaduti prima della sua entrata in vigore.
2. Questi, in breve, i fatti. Il sig. S., nella sua qualità di amministratore unico di una s.r.l. operante nel settore siderurgico, è accusato del mancato versamento dell'IVA dovuta in base alla dichiarazione relativa all'anno 2012 per un importo pari ad euro 175.272,00. Pur a fronte della tempestiva presentazione della dichiarazione annuale contenente l'autoliquidazione dell'imposta dovuta, la società non aveva infatti provveduto ad effettuarne il pagamento entro il termine ultimo disponibile (coincidente con quello stabilito per il versamento dell'acconto relativo all'anno di imposta successivo). A seguito del procedimento di accertamento tributario, la società aveva optato per un pagamento rateizzato dell'imposta (da effettuarsi entro trenta giorni dall'apposita comunicazione dell'Agenzia delle entrate), con conseguente riduzione ad un terzo delle sanzioni amministrative dovute.
In relazione ai fatti de quibus il pubblico ministero richiedeva l'emissione a carico del sig. S. di un decreto penale di condanna alla pena della multa di euro 22.500,00 in ordine al reato di «omesso versamento di IVA» ex art. 10-ter. Il g.i.p. destinatario della richiesta si è rivolto alla Corte di Lussemburgo ritenendo dirimente, ai fini della pronuncia del provvedimento monitorio, una sentenza interpretativa in merito alle seguenti questioni pregiudiziali:
«- Se il diritto europeo, e in particolar modo il combinato disposto degli artt. 4, paragrafo 3, TUE, 325 TFUE e [della] direttiva 2006/112 che prevedono l'obbligo di assimilazione in capo agli Stati membri per quanto riguarda le politiche sanzionatorie, possa essere interpretato nel senso che osti alla promulgazione di una norma nazionale che preveda che la rilevanza penale dell'omesso versamento dell'IVA consegua al superamento di una soglia pecuniaria più elevata rispetto a quella stabilita in relazione all'omesso versamento dell'imposta diretta sui redditi;
- Se il diritto europeo, e in particolar modo il combinato disposto degli artt. 4, paragrafo 3, TUE, 325 TFUE e [della] direttiva 2006/112 che impongono l'obbligo a carico degli Stati membri di prevedere sanzioni effettive, dissuasive e proporzionate a tutela degli interessi finanziari della UE, possa essere interpretato nel senso che osti alla promulgazione di una norma nazionale che escluda la punibilità dell'imputato (sia esso amministratore, rappresentante legale, delegato a svolgere funzioni di rilevanza tributaria ovvero concorrente nell'illecito), qualora l'ente dotato di personalità giuridica ad esso riconducibile abbia provveduto al pagamento tardivo dell'imposta e delle sanzioni amministrative dovute a titolo di IVA, nonostante l'accertamento fiscale sia già intervenuto e si sia provveduto all'esercizio dell'azione penale, al rinvio a giudizio, all'accertamento della rituale instaurazione del contraddittorio in sede di processo e fin tanto che non si è proceduto alla dichiarazione di apertura del dibattimento, in un sistema che non commina a carico del predetto amministratore, rappresentante legale ovvero al loro delegato e concorrente nell'illecito alcuna altra sanzione, neppure a titolo amministrativo;
- Se la nozione di illecito fraudolento disciplinata all'art. 1 della Convenzione PIF vada interpretata nel senso di ritenere incluso nel concetto anche l'ipotesi di omesso, parziale, tardivo versamento dell'imposta sul valore aggiunto e, conseguentemente, se l'art. 2 della convenzione summenzionata imponga allo Stato membro di sanzionare con pene detentive l'omesso, parziale, tardivo versamento dell'IVA per importi superiori a 50.000,00 euro.
In caso di risposta negativa, occorre chiedersi se la prescrizione dell'art. 325 TFUE, che obbliga gli Stati membri a comminare sanzioni, anche penali, dissuasive, proporzionate ed efficaci, vada interpretata nel senso che osti ad un assetto normativo nazionale che esenta da responsabilità penale e amministrativa gli amministratori e i rappresentanti legali delle persone giuridiche, ovvero i loro delegati per la funzione e i concorrenti nell'illecito, per l'omesso, parziale, ritardato versamento di IVA in relazione ad importi corrispondenti a 3 o 5 volte le soglie minime stabilite in caso di frode, pari a 50.000,00 euro».
3. Prima di procedere all'esame delle singole questioni sottoposte al vaglio della Corte di giustizia UE, giova soffermare brevemente l'attenzione sulle norme europee invocate dal giudice remittente quale parametro interpretativo.
In primo luogo viene richiamato l'art. 4.3 TUE, che sancisce il principio c.d. di fedeltà comunitaria (o di leale collaborazione tra l'Unione e gli Stati membri). Detto principio, sin dal celebre caso del "mais greco"[2], è stato declinato nei due corollari dell'assimilazione e dell'efficacia-proporzionalità: il primo richiede un'omogeneità tra le risposte punitive a presidio dei precetti nazionali e comunitari comparabili per natura e gravità; il secondo prescrive una tutela dei beni comunitari in termini di efficacia, proporzionalità e dissuasività.
L'ordinanza in commento richiama poi l'art. 325 TFUE. Esso offre una specificazione dei principi sopra richiamati nell'ambito della protezione degli interessi finanziari dell'Unione: prevede, infatti, che l'Unione e gli Stati membri combattano la frode e le altre attività illegali lesive delle finanze comunitarie mediante misure effettive e dissuasive e ribadisce altresì che gli Stati membri devono adottare, per la lotta contro le frodi che ledono gli interessi finanziari UE, una tutela equivalente a quella approntata per combattere le frodi che ledono gli interessi finanziari nazionali.
Il ricorso pregiudiziale in esame richiama infine varie disposizioni della direttiva 2006/112/CE del 28 novembre 2006 relativa al sistema comune d'imposta sul valore aggiunto e la Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee del 26 luglio 1995 (c.d. "Convenzione PIF"). Tipico strumento intergovernativo di terzo pilastro (adottato sulla base dell'art. K3 del Trattato di Maastricht e ratificato in Italia con legge 29 settembre 2000, n. 300), la predetta Convenzione rappresenta il primo tentativo di armonizzazione del diritto penale sostanziale in materia antifrode, il cui scopo precipuo è quello di assicurare un'efficace tutela del bilancio comunitario anche attraverso il diritto penale degli Stati membri. L'art. 1 ne delimita l'ambito applicativo e fornisce allo scopo una definizione della frode lesiva degli interessi finanziari UE in materia di spese (art. 1, lett. a) e di entrate (art. 1, lett. b). L'art. 2 prevede poi l'obbligo di adottare sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive a tutela del bilancio dell'Unione; sanzioni che - nei casi di «frode grave» (ossia quelle riguardanti importi non inferiori a 50.000 euro) - devono includere «pene privative di libertà che possono comportare l'estradizione».
4. La prima questione pregiudiziale attiene alla mancata equiparazione tra le soglie di punibilità rispettivamente previste dagli artt. 10-bis («omesso versamento di ritenute dovute o certificate»: euro 150.000) e 10-ter («omesso versamento di IVA»: euro 250.000) del d.lgs. n. 74/2000. Più specificamente, il g.i.p. di Varese si interroga sulla legittimità, alla luce del principio di assimilazione, di una politica sanzionatoria nazionale che punisce più ampiamente - vale a dire con soglie di rilevanza penale più basse - gli omessi pagamenti delle imposte sui redditi (che non costituiscono di per sé voci di entrata per il bilancio dell'Unione) rispetto ad analoghe omissioni relative all'IVA (una quota della quale concorre invece a formare le c.d. "risorse proprie" del bilancio comunitario).
Nel caso di specie, l'imposta evasa è pari a 175.272 euro, ossia inferiore alla soglia stabilita dal nuovo art. 10-ter, rispetto al quale il d.lgs. n. 158/2015 ha determinato una parziale abolitio criminis (art. 2, comma 2 c.p.)[3]. Dalla risoluzione della prospettata questione possono invero derivare opposte conseguenze decisorie nel giudizio penale interno. Da un lato, in caso di ritenuta compatibilità con il diritto europeo del sistema delle soglie differenziate, l'omesso pagamento in questione risulterebbe ad oggi sotto-soglia, dunque privo di rilevanza penale, con conseguente necessità di prosciogliere l'imputato. Dall'altro lato, qualora si rilevasse l'illegittimità di detta diversificazione, il giudice nazionale dovrebbe disapplicare il limite tipizzato dall'art. 10-ter ed applicare invece quello ad oggi operante per l'imposta sui redditi (pari ad euro 150.000,00), di tal che l'omesso versamento in esame risulterebbe sopra-soglia, dunque penalmente rilevante. In questo secondo caso, pertanto, l'eventuale disapplicazione della norma nazionale dispiegherebbe sull'imputato effetti in malam partem (con tutti i problemi di legalità correlati a effetti siffatti: cfr., infra, sub par. 7).
Per quanto riguarda il merito della questione, ci si limita in questa sede a segnalare che già la Corte costituzionale, con sentenza n. 100/2015[4], si è pronunciata sulla compatibilità costituzionale delle disarmonie punitive intercorrenti tra le soglie previste fino al 17 settembre 2011 per l'omesso versamento di ritenute certificate, da un lato, e per l'omesso versamento di IVA (come risultante dalla dichiarazione di parziale incostituzionalità di cui alla sentenza n. 80/2014), dall'altro. Nel caso di specie, i giudici della Consulta - non discostandosi da quell'atteggiamento di self-restraint tradizionalmente dimostrato nell'ambito del sindacato di ragionevolezza in materia penale - avevano ritenuto infondata la prospettata censura ex art. 3 Cost e dato ampiamente conto in motivazione di una serie di significativi "elementi differenziali" caratterizzanti le ipotesi criminose di cui agli artt. 10-bis e 10-ter.
5. La seconda questione pregiudiziale sollevata dal g.i.p. di Varese ha ad oggetto la causa di non punibilità di cui all'art. 13 del d.lgs. n. 74/2000 (investita anche da una recentissima questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Treviso[5]), ritenuta potenzialmente confliggente con il secondo corollario del principio di leale collaborazione, quello di efficacia-proporzionalità.
Come noto, il d.lgs. n. 158/2015 ha introdotto una nuova causa di non punibilità connessa all'eventualità dell'estinzione del debito tributario. Più specificamente, il pagamento del tributo dovuto (comprensivo di interessi e sanzioni amministrative, anche ridotte in esito a procedimento conciliativo) deve avvenire secondo le scansioni temporali previste dall'art. 13: prima della dichiarazione di apertura del dibattimento nel caso degli artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater (art. 13, comma 1); prima della formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell'inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali nel caso degli artt. 4 e 5 (art. 13, comma 2). Qualora il contribuente stia provvedendo al versamento rateizzato dell'imposta dovuta, il comma 3 della medesima disposizione prevede l'obbligo per il giudice di concedere un termine di tre mesi per il pagamento del debito residuo, termine dallo stesso discrezionalmente prorogabile una sola volta e per non più di tre mesi. In entrambi i casi si prevede espressamente la sospensione della prescrizione.
Con riferimento all'omesso versamento dell'IVA l'operatività della causa di non punibilità in esame non richiede dunque che il pagamento integrale di tributo, interessi e sanzioni amministrative avvenga spontaneamente; è ragionevole ritenere che nelle ipotesi disciplinate dall'art. 13, comma 1 detto pagamento avvenga sulla base di calcoli utilitaristici. Se viene meno la minaccia della pena, un valido effetto dissuasivo potrebbe comunque essere prodotto dalle sanzioni amministrative (da corrispondersi unitamente al tributo ed agli interessi ai fini dell'operatività dell'art. 13)[6].
Tuttavia, il doppio binario sanzionatorio non potrebbe operare nel caso in cui il rapporto fiscale faccia capo ad una persona giuridica. In quest'ultima ipotesi, infatti, eventuali sanzioni penali investiranno unicamente la persona fisica (amministratore, legale rappresentante), a fronte della mancata inclusione delle fattispecie regolate dal d.lgs. n. 74/2000 nel novero dei reati-presupposto idonei a fondare una responsabilità a carico dell'ente ex d.lgs. n. 231/2001. Sul versante amministrativo, invece, l'art. 7 del d.l. n. 269/2003 prevede che «le sanzioni relative al rapporto fiscale proprio di società o enti sono esclusivamente a carico delle persone giuridiche». In quest'ultimo caso dunque, il giudice remittente mette in evidenza che, rispetto all'amministratore persona fisica che estingua il debito tributario nei termini stabiliti dall'art. 13, verrebbe a mancare anche la funzione general-preventiva connessa alla minaccia di sanzioni amministrative pecuniarie e sollecita pertanto l'intervento ermeneutico dei giudici di Lussemburgo in merito alla compatibilità con i canoni di effettività, proporzionalità e dissuasività sanciti dagli artt. 4.3 TUE e 325 TFUE di una disciplina nazionale che comporta (alle condizioni sopra enunciate) l'esenzione da sanzioni in senso lato punitive a fronte di comportamenti riconducibili all'alveo dell'art. 10-ter.
6. La terza questione pregiudiziale attiene alla possibile inclusione dell'omesso pagamento dell'IVA nella nozione di «frode» di cui all'art. 1 della Convenzione PIF: inclusione che, a norma di quanto previsto dal successivo art. 2, implicherebbe una limitazione della discrezionalità sanzionatoria degli Stati membri, con possibili ricadute sull'apparato repressivo previsto dal d.lgs. n. 74/2000. Secondo la ricostruzione fornita dal giudice remittente, invero, qualora l'omesso pagamento dell'IVA fosse ricondotto alla predetta nozione di «frode», se ne imporrebbe la punizione con sanzioni limitative della libertà personale in tutti i casi eccedenti il limite minimo di 50.000 euro di cui all'art. 2.
Nel merito della questione, ci si limita qui ad osservare che l'omesso pagamento dell'IVA - di per sé lesivo del bilancio dell'Unione, in quando determina tout court una diminuzione delle entrate provenienti dall'applicazione di un'aliquota uniforme agli imponibili IVA armonizzati - difficilmente potrà essere ricondotto alla più complessa e selettiva nozione di «frode». La questione prospettata, peraltro, chiama in causa delicati equilibri politici tra l'Unione e i Paesi membri. In materia di IVA, infatti, sono tuttora in corso le negoziazioni presso le istituzioni europee della nuova Direttiva per la protezione degli interessi finanziari dell'Unione attraverso la legge penale (c.d. Direttiva PIF)[7], nel cui ambito sembrerebbero allo stato escluse le c.d. frodi carosello, comportando così - nonostante la presa di posizione della Corte di giustizia in materia (cfr. sentenza C-105/14, Taricco, § 38 e già C-617/10, Åkerberg Fransson, § 26) - una sorta di regressione rispetto alla scopo della Convenzione PIF[8].
In subordine, qualora l'omesso pagamento dell'IVA non fosse ritenuto ascrivibile all'ambito di applicazione della Convenzione PIF, si richiede comunque ai giudici di Lussemburgo di valutarne l'apparato repressivo alla luce del parametro fornito dall'art. 325 TFUE. L'ordinanza remittente ipotizza questa volta una possibile frizione della soglia di punibilità prevista dall'art. 10-ter con il principio di efficacia-proporzionalità. Il sindacato della Corte di giustizia operato sulla base dei due corollari del principio di leale collaborazione (il primo dei quali, quello di assimilazione, era stato richiamato nella prima questione pregiudiziale: supra § 4) potrebbe invero condurre ad esiti interpretativi affatto differenti, stanti le diverse rationes cui detti corollari sono ispirati[9].
7. Al di là della effettiva rilevanza nel giudizio a quo e della fondatezza nel merito delle questioni pregiudiziali prospettate - entrambi aspetti sui quali ci si riserva di sviluppare riflessioni più approfondite in altro, apposito lavoro -, l'ordinanza in commento presenta notevoli profili di interesse meritevoli di breve ma immediata considerazione.
Le questioni esaminate nel caso di specie si distinguono considerevolmente da quelle oggetto della sentenza Taricco. Senza voler soffermarsi sulle criticità evidenziate da quest'ultima, giova tuttavia ricordare che la giustificazione addotta dai giudici di Lussemburgo per un intervento in malam partem sembrava poggiare in quella sede sulla natura meramente processuale da essi attribuita alla normativa in tema di prescrizione. A quest'ultima disciplina - contrariamente alla posizione fatta propria dalla Corte costituzionale - sarebbe pertanto applicabile il principio del tempus regit actum, non invece quello del nullum crimen, nulla poena sine lege.
Nessun dubbio sussiste invece sul fatto che le questioni prospettate dal g.i.p. di Varese investano direttamente l'area di delimitazione dell'illecito previsto dall'art. 10-ter ed il relativo trattamento sanzionatorio, ambiti certamente sottoposti alle garanzie sottese al principio di legalità penale. Tale principio, come riconosciuto dall'art. 49 CDFUE (da interpretarsi, a norma dell'art. 53 CDFUE, in conformità all'art. 7 CEDU e relativa giurisprudenza della Corte di Strasburgo) osterebbe dunque alla dichiarazione di non conformità al diritto UE della nuova disciplina penal-tributaria da parte della Corte di giustizia, in linea con la propria precedente giurisprudenza che negava la possibilità per una direttiva non trasposta di determinare o aggravare la responsabilità penale di un individuo (cfr. in particolare C-80/86, Kolpinghuis Nijmegen, § 13 e più recentemente cause riunite C-387/02, C-391/02 e C-403/02 Berlusconi e altri, § 74). A venire in rilievo nel caso di specie sono diversi aspetti del principio di legalità nella estensione ad esso attribuita a livello europeo e convenzionale, tra cui in particolare la necessaria prevedibilità del precetto e della pena e la garanzia della retroattività della legge penale più favorevole. A ben vedere, la circostanza che la pronuncia della Corte non potrebbe mai nuocere all'imputato nel giudizio a quo dovrebbe condurre financo ad una decisione di irricevibilità del ricorso per difetto di rilevanza (esito dal quale la Corte tende a rifuggire: cfr. la già citata sentenza Berlusconi e altri, e altresì Taricco, nella quale le questioni sono state estensivamente riformulate dall'Avvocato generale Kokott).
Qualora i giudici di Lussemburgo ritenessero ricevibili le questioni prospettate dall'ordinanza in commento e giudicassero le norme interne incompatibili con gli invocati parametri UE, il giudice nazionale non potrà comunque egli stesso farsi carico di risolvere l'antinomia; ciò implicherebbe, in effetti, un'interpretazione delle norme penali nazionali (non già e non solo di tipo estensivo o analogico, ma financo) contra legem: interpretazione non ammessa soprattutto in ambito criminale, nemmeno al fine di dare attuazione al diritto UE.
Le già evidenti frizioni con il principio di legalità si rendono ancora più palesi ove si considerino gli esiti di una eventuale pronuncia di incompatibilità delle norme di legge nazionali con il diritto UE in relazione alle regulae iuris in ipotesi applicabili nel caso concreto a livello interno. Per considerare il problema è opportuno operare una distinzione tra le domande proposte dall'ordinanza remittente. Da un lato, con riferimento alla prima questione pregiudiziale, in caso di dichiarata incompatibilità della soglia di punibilità di cui all'art. 10-ter con il principio di assimilazione, l'eventuale disapplicazione di tale soglia potrebbe suggerire l'operatività di quella più bassa prevista dall'art. 10-bis (norma, quest'ultima, espressamente richiamata dal g.i.p. di Varese quale tertium comparationis). Tale esito, senz'altro da scongiurare in termini di legalità, sarebbe quantomeno in grado di definire una regola precisa per il giudice remittente. Dall'altro lato, a fronte di questioni che investano tout court norme penali di esclusione o limitazione della punibilità (come la seconda e parte della terza questione), l'interprete dovrebbe confrontarsi con l'ulteriore problema della mancanza di una precisa regula iuris applicabile al caso concreto idonea ad arginarne l'intervento discrezionale[10], che rischierebbe così di tramutarsi in un sostanziale arbitrio.
In questo secondo caso si potrebbe pertanto ipotizzare che il giudice interroghi sul punto la Corte costituzionale, facendo valere la presunta contrarietà delle norme penali interne con gli artt. 11 e 117, comma 1 Cost. Tuttavia, a fronte dei ben noti esiti peggiorativi che si determinerebbero per la situazione processuale dell'imputato, nemmeno in questo caso la decisione della Consulta potrebbe certo dare luogo ad esiti fruibili nel giudizio a quo; piuttosto, si potrebbe prospettare la pronuncia di una sentenza monitoria di rigetto per irrilevanza della questione, con la quale la Consulta, accertando in motivazione l'illegittimità della norma oggetto del giudizio di conformità costituzionale, solleciti un intervento legislativo ad hoc (pur sempre rilevante soltanto pro futuro).
Per contro, qualora la Corte di giustizia - in spregio alle fondamentali istanze legalistiche già richiamate - dovesse accogliere una o più delle questioni prospettate dal g.i.p. di Varese ed indicargli la via della (parziale) disapplicazione delle norme penali interne con esiti peggiorativi per la situazione processuale dell'imputato, non resterebbe che invocare il principio del nullum crimen quale "controlimite" al primato del diritto europeo. In questo caso, analogamente a quanto emerso dall'ordinanza della Corte d'appello di Milano[11], verrebbero soprattutto in rilievo due declinazioni del principio di legalità: in primis, la riserva di legge, poiché mediante una disapplicazione in malam partem il giudice nazionale invaderebbe un ambito riservato al monopolio del legislatore ex art. 25, comma 2 Cost.; in secondo luogo (in senso speculare all'ordinanza da ultimo citata che richiamava l'irretroattività della legge penale), il principio di retroattività della lex mitior, nell'estensione ad esso riconosciuta dalla giurisprudenza costituzionale (come noto non ancora del tutto allineata alla nuova dimensione accordata a tale principio da parte delle Corti europee: cfr. in particolare Corte EDU, Scoppola c. Italia, 10 giugno 2008)[12].
I rilievi necessariamente sommari svolti in questa sede dimostrano dunque l'assoluta centralità delle questioni sottoposte al vaglio della Corte di Giustizia, nonché l'impatto potenzialmente eversivo che una decisione che ravvisi l'incompatibilità della normativa interna rispetto al diritto UE potrebbe avere rispetto ad alcuni dei principi fondamentali in tema di responsabilità penale.
[1] Sulla recente riforma della disciplina dei reati tributati si rimanda alla relazione dell'Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, n. III/05/2015, redatta dai Consiglieri P. Molino e P. Silvestri, reperibile cliccando qui ed alla prima panoramica a firma di S. Finocchiaro, La riforma dei reati tributari: un primo sguardo al d.lgs. 158/2015 appena pubblicato, in questa Rivista, 9 ottobre 2015.
[2] Cfr. Corte di giustizia, 21 settembre 1989, Commissione c. Grecia, C-68/88.
[3] Cfr. Trib. Udine, 1 febbraio 2016, giud. Pecile, in funzione di giudice dell'esecuzione, con scheda di S. Finocchiaro, Abolitio criminis e reati tributari "sotto-soglia": uno dei primi provvedimenti di revoca del giudicato, in questa Rivista, 19 febbraio 2016.
[4] Corte cost., sent. 13 maggio 2015 (dep. 5 giugno 2015), n. 100, Pres. Criscuolo, Rel. Frigo, sulla quale cfr. la scheda di F. Viganò, Infondata la questione di legittimità costituzionale sulla soglia di punibilità di 50.000 euro nel delitto di omesso versamento delle ritenute (art. 10-bis del d.lgs. 74/2000), in questa Rivista, 8 giugno 2015.
[5] Trib. Treviso, sez. pen., ord. 23 febbraio 2016, Giudice Vettoruzzo, con nota di S. Finocchiaro, La nuova causa di non punibilità per estinzione del debito tributario posta al vaglio della Corte costituzionale da un'ordinanza del Tribunale di Treviso, in questa Rivista, 4 aprile 2016.
[6] Cfr. P. Aldrovandi, Commento alle modifiche apportate al d.lgs. 10.3.2000, n. 74 dal d.lgs. 24.9.2015, n. 158, in corso di pubblicazione nell'Addenda a Diritto penale dell'economia - Commentario, a cura di A. Lanzi, Roma, 2016, p. 24.
[7] Cfr. A. Venegoni, Prime brevi note sulla proposta di Direttiva per la protezione degli interessi finanziari dell'Unione attraverso la legge penale COM 2012(363) (c.d. Direttiva PIF), in questa Rivista, 5 settembre 2012.
[8] Cfr. A. Venegoni, La sentenza Taricco: una ulteriore lettura sotto il profilo dei riflessi sulla potestà legislativa dell'Unione in diritto penale nell'area della lotta alle frodi, in questa Rivista, 29 ottobre 2015.
[9] Cfr. chiaramente A. Bernardi, Profili di incidenza del diritto comunitario sul diritto penale agroalimentare, in Annali dell'Università di Ferrara - Scienze giuridiche, XI, Ferrara, 1997, p. 171-172, il quale mette il luce la potenziale conflittualità (e la conseguente difficoltà di coordinamento) dei principi di assimilazione e di efficacia-proporzionalità. Il primo di essi, ispirato ad un criterio «statocentrico», prescrive la coerenza delle scelte punitive nazionali rispetto alle condotte lesive di interessi nazionali e comunitari; il secondo, di tipo invece «eurocentrico», idoneo a comportare una vera e propria armonizzazione delle scelte sanzionatorie dei Paesi membri. Quest'ultimo principio, in particolare, prevarrebbe sul primo ogniqualvolta le misure adottate da uno Stato membro a tutela dei precetti comunitari, pur se equivalenti a quelle adottate per proteggere i precetti nazionali, dovessero rivelarsi inefficaci.
[10] Cfr. chiaramente V. Onida, Nuove prospettive per le giurisprudenza costituzionale in tema di applicazione del diritto comunitario, in Diritto comunitario e diritto interno. Atti del seminario svoltosi in Roma, Palazzo della Consulta, 20 aprile 2007, Milano, 2008, p. 54-57.
[11] Cfr. Corte d'appello di Milano, II sez. pen., ord. 18 settembre 2015, Pres. Maiga, Est. Locurto, con nota di F. Viganò, Prescrizione e reati lesivi degli interessi finanziari dell'UE: la Corte d'appello di Milano sollecita la Corte costituzionale ad azionare i 'controlimiti', in questa Rivista, 21 settembre 2015.
[12] Cfr. l'ampia ricostruzione di F. Viganò, Sullo statuto costituzionale della retroattività della legge penale più favorevole: un nuovo tassello nella complicata trama dei rapporti tra Corte costituzionale e Corte EDU, in Alle frontiere del diritto costituzionale. Scritti in onore di Valerio Onida, a cura di M. D'Amico, Milano, 2011, p. 1989 ss.