22 settembre 2014 |
L'intercettazione-corpo di reato e la breccia nel recinto dell'utilizzabilità
Cass., Sez. Un., 26 giugno 2014 (dep. 23 luglio 2014), n. 32697, Pres. Santacroce, Rel. Lombardi, Ric. Floris e al.
La conversazione o comunicazione intercettata costituisce corpo del reato allorché essa integra di per sé la fattispecie criminosa e, in quanto tale, è utilizzabile nel processo penale.
1. Un conclamato contrasto in ordine alla possibilità di utilizzare le intercettazioni in procedimenti diversi da quello d'origine anche quando non «indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza» (art. 270 comma 1 c.p.p.) - in difetto, quindi, delle condizioni ex lege - sul presupposto che trovi applicazione la disciplina regolante l'uso processuale del corpo di reato (art. 431 comma 1 lett. h c.p.p.), fornisce alla Suprema corte l'abbrivio per affrontare nel massimo consesso un quesito duplice, articolato in termini compositi, per vero, dalla stessa sezione rimettente[1]: se la registrazione di un colloquio, costituente condotta criminosa, sia riconducibile al genus «corpo del reato» (art. 253 comma 2 c.p.p.) e se sia possibile, per tale via, superare i rigorosi limiti all'impiego dell'intercettazione oltre i confini del procedimento a quo.
Emblematico il casus belli, approdato in sede di legittimità dopo che nei due gradi di merito gli imputati, militari dell'Aliquota radiomobile del Comando Compagnia Carabinieri, erano stati riconosciuti responsabili del delitto di distruzione e deterioramento di cose militari aggravato (artt. 40 e 110 c.p. e 169 e 47 cod. pen. mil. pace) perché, comandati in servizio di perlustrazione a bordo di autovettura di proprietà dell'Amministrazione militare, avevano intenzionalmente mandato il motore "fuori giri", portato l'autovettura a velocità elevata e innestato per due volte la prima marcia, provocando la rottura del cambio e del differenziale[2]. In prima istanza la sentenza - poi confermata in appello - fondava la statuizione di responsabilità, tra l'altro, proprio sulle risultanze della registrazione digitale sonora di quanto avvenuto a bordo dell'autovettura.
La captazione audio, più precisamente, contenente non soltanto rumori ma anche le voci, le risate e le parole degli imputati, descrittive della condotta tenuta e ritenute espressive del compiacimento di entrambi, era stata tratta da un dispositivo per intercettazione ambientale installato sul veicolo nel contesto di indagini per reati diversi a carico di militari del medesimo Comando. A stretto rigore, quindi, non esportabile nel procedimento ad quem, non essendo previsto l'arresto obbligatorio in flagranza per il reato di distruzione e deterioramento di cose militari aggravato (art. 270 comma 1 c.p.p.); eppure, acquisita nel corso del dibattimento e utilizzata dai giudici di merito per fondare il giudizio di responsabilità perché ritenuta nella sua interezza corpo di reato (art. 431 comma 1 lett. h c.p.p.).
2. Investita del ricorso per cassazione, la prima sezione penale denunciava immediatamente il dissidio interpretativo - ben presente, peraltro, al Tribunale e alla Corte d'appello militare, non meno che agli stessi ricorrenti - riassumendone efficacemente gli estremi.
Secondo un primo e più consistente orientamento, le limitazioni probatorie di cui all'art. 270 c.p.p. non dovrebbero valere allorché la comunicazione intercettata costituisca essa stessa condotta delittuosa che, imprimendosi contestualmente alla commissione del fatto sul supporto magnetico registrante, lo renderebbe corpo del reato, in quanto tale utilizzabile come fonte di prova nel giudizio[3]. Indirizzo compatto nel principio, ma frammentario all'atto pratico: di qui, le preliminari richieste della sezione rimettente di precisare, per un verso, l'esatta identità del corpo del reato - non essendo pacifico che sia da considerare tale il supporto materiale (id est, la "bobina delle intercettazioni", la "registrazione delle comunicazioni", il "supporto magnetico registrante") ovvero gli elementi di natura immateriale (quali la "comunicazione intercettata" o "le conversazioni intese come segni espressivi di comunicazione tra soggetti") - e di chiarire, per altro verso, se i limiti all'impiego delle intercettazioni disposte aliunde debbano tornare a operare allorché la comunicazione captata non esaurisca la condotta criminosa ma ne rappresenti soltanto un frammento[4].
L'opinione opposta, forte di due soli precedenti, muovendo dal presupposto che il colloquio intercettato non possa mai costituire di per sé corpo del reato - diversamente, si finirebbe con il confondere il risultato dell'intercettazione con la cosa materiale (nastro, disco o filmato) che documenta il fatto di reato, in quanto mezzo o prodotto della condotta criminosa, nonché la stessa condotta criminosa con l'attività esterna della sua documentazione - porterebbe, per converso, a ritenere la registrazione acquisibile nei circoscritti limiti indicati dall'art. 270 c.p.p., senza possibilità di ricorrere alle norme che regolano l'uso processuale del corpo di reato[5].
3. Al poliedrico quesito distillato nell'ordinanza - "[s]e, in tema di intercettazioni, telefoniche o ambientali, utilizzate in altri procedimenti, la comunicazione intercettata, costituente condotta delittuosa, sia qualificabile, essa stessa o il supporto registrante, interamente o in parte, corpo di reato, e sia soggetta alle norme che regolano l'uso processuale del corpo di reato, o alle disposizioni stabilite dall'art. 270 c.p.p." - fa allora eco una risposta altrettanto complessa ma interamente ancorata, a ben vedere, alle sue premesse "classificatorie".
Preliminare, convengono appunto le Sezioni Unite, è definire la nozione di corpo del reato e verificare se vi si possa associare un'accezione ampia, svincolata dall'esistenza di un elemento materiale connesso alla commissione del reato, in quanto tale tangibile e apprensibile a fini processuali. L'esame del dettato normativo - segnatamente, le previsioni in materia di sequestro di corrispondenza (art. 254 c.p.p.), di sequestro di dati informatici (art. 254-bis c.p.p.) e di documenti costituenti corpo del reato (art. 235 c.p.p.) - in uno con le opinioni di giurisprudenza e dottrina favorevoli a identificare il corpo del reato, in relazione a talune specifiche fattispecie in cui la condotta criminosa assume carattere dichiarativo, con il supporto cartaceo o con la registrazione che veicolano la dichiarazione (il richiamo è ai precedenti in materia di falsità ideologica, falsa testimonianza, calunnia o simulazione di reato), attesterebbero l'interesse dell'ordinamento ad acquisire al processo il contenuto - prima ancora del contenitore - della comunicazione, così superando il significato strettamente materiale di «corpo del reato» che parrebbe altrimenti emergere dalla lettura isolata della disposizione di riferimento, tutta incentrata sulla reiterazione del termine «cose» (art. 253 comma 2 c.p.p.).
Posto quindi l'assunto generale secondo cui "la registrazione o trascrizione del dato dichiarativo o comunicativo, che integra la fattispecie criminosa, costituisce corpo del reato che, in quanto tale, deve essere acquisito agli atti del procedimento, ai sensi dell'art. 431 comma 1 lett. h c.p.p., ed utilizzato come prova nel processo penale", la sentenza non tarda a replicare il ragionamento in materia di intercettazioni. Si osserva, in proposito, come la documentazione dell'intercettazione possa costituire corpo del reato in forza di norma ad hoc che ne sancisce la salvaguardia - e, quindi, l'utilizzabilità - in deroga al dovere generale di distruggere la documentazione delle intercettazioni inutilizzabili (art. 271 comma 3 c.p.p.). Invero, trattandosi di previsione collocata nel contesto della disciplina delle intercettazioni disposte dall'autorità giudiziaria (art. 266 e s. c.p.p.) e contenente un riferimento espresso ai divieti di utilizzazione proprio per violazione di tale disciplina (art. 271 commi 1 e 2 c.p.p.), risulterebbe per tabulas che l'intercettazione-corpo di reato non è da circoscrivere alle marginali ipotesi in cui è la stessa registrazione a integrare la condotta criminosa (segnatamente, il delitto di interferenze illecite nella vita privata di cui all'art. 615-bis c.p.). Sarebbe, insomma, lo stesso legislatore a ipotizzare che la documentazione delle intercettazioni possa costituire corpo del reato proprio in considerazione del contenuto comunicativo o dichiarativo, in sé penalmente rilevante, e non soltanto dell'illecita captazione.
Semmai, precisa ancora la Suprema corte, dichiarazione intercettata e corpus delicti vengono a coincidere nei soli casi in cui la comunicazione o conversazione integri ed esaurisca la fattispecie criminosa. Viceversa, non si perfeziona immedesimazione alcuna se il colloquio si riferisce a una condotta criminosa o ne costituisce soltanto un frammento, poiché in tali evenienze il reato si compie mediante comportamenti ulteriori rispetto ai quali l'elemento comunicativo assume carattere meramente descrittivo. In siffatte ipotesi, fermo il possibile impiego del dato dichiarativo quale notizia di reato[6], operano i limiti di utilizzabilità stabiliti dall'art. 270 c.p.p. Ed è proprio in ragione di tale ultimo corollario che le Sezioni unite, nello specifico caso sottoposto a scrutinio di legittimità, annullano con rinvio la sentenza impugnata.
4. Perfettamente coerente con le premesse da cui muove - se corpo del reato, la registrazione è utilizzabile - il sillogismo poggia senza remore sulla definizione (rectius, sull'ampliamento) delle ipotesi in cui la captazione può costituire corpo di reato. Manovra discutibile, se è vero che alla dilatazione della categoria-presupposto (l'intercettazione-corpo di reato) corrisponde una breccia incontrollabile nel recinto "rigido" che dovrebbe delimitare l'utilizzabilità in altri procedimenti delle intercettazioni disposte aliunde (art. 270 c.p.p.).
Certamente, non si dubita che il corpus delicti sia sempre acquisibile al fascicolo per il dibattimento e utilizzabile nel processo in quanto tale (art. 431 comma 1 lett. h c.p.p.); al di là - quindi - di specifiche limitazioni previste per legge in relazione all'impiego di determinati risultati probatori. Così è, in generale, per i documenti costituenti corpo del reato, che «devono essere acquisiti» - ab origine, senza spazio per valutazioni giudiziali in merito a rilevanza e non superfluità e superando potenziali divieti altrimenti sanciti[7] - indipendentemente dalla persona che li abbia formati o li detenga (art. 235 c.p.p.). Disciplina che si riflette nel peculiare regime dei documenti che contengono dichiarazioni anonime, di cui sono preclusi acquisizione e utilizzo «salvo che costituiscano corpo del reato» (art. 240 comma 1 c.p.p.). Ancora, il sequestro di carte e documenti relativi all'oggetto della difesa (art. 103 comma 2 c.p.p.) o il sequestro e il controllo della corrispondenza "riconoscibile" tra imputato difensore (art. 103 comma 6 c.p.p.) sono vietati - e restituiscono, quindi, risultanze inutilizzabili (art. 103 comma 7 c.p.p.) - a meno che costituiscano corpo del reato o che, rispettivamente, l'autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere siano tali. Conseguenze non dissimili sono infine previste proprio in materia di intercettazioni[8]: inutilizzabili, se illegittime (art. 271 commi 1 e 2 c.p.p.); ciò nondimeno, la relativa documentazione è sottratta al dovere di distruzione - e dunque, è utilizzabile - allorché «costituisca corpo del reato» (art. 271 comma 3 c.p.p.)[9].
Tutto questo per ribadire che esiste davvero una sorta di legittimo passe-partout, capace di obliterare "serrature" variamente innestate sub specie di divieti probatori e di schiudere le porte verso l'utilizzabilità. Prevale, al cospetto del corpo di reato, l'interesse ad acquisire un quid irrinunciabile: è l'oggetto (cose «sulle quali»), lo strumento (cose «mediante le quali») o il risultato (cose «che ne costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo») dell'illecito da accertare e a tali fini riveste intrinseco e meritato valore probatorio, tanto da essere passibile, da subito, di sequestro (art. 253 comma 2 c.p.p.) e, a processo instaurato, di originaria e indisponibile allegazione al fascicolo per il dibattimento (art. 431 comma 1 lett. h c.p.p.).
Ragionevole, quindi, che la documentazione delle intercettazioni, se corpo del reato, sia utilizzabile in altri procedimenti in quanto tale, anche oltre i limiti stabiliti per l'impiego delle intercettazioni disposte aliunde (art. 270 c.p.p.), proprio perché il corpus delicti rappresenta una chiave privilegiata che legittima l'uso probatorio anche lì dove la legge circoscrive i margini dell'utilizzabilità.
5. Fermo ciò, rimane invece per buona parte incerto il perimetro del binomio intercettazione-corpo di reato cui si àncora l'intero costrutto argomentativo: a dire delle Sezioni unite, dilatabile al punto da ricomprendervi la registrazione di un colloquio che esaurisca esso stesso la condotta penalmente rilevante.
Invero, l'approccio prescelto dalla Suprema corte per esaminare il tema, nettamente "moderno" nella misura in cui punta subito a valorizzare, quale corpo di reato, anche elementi di natura non strettamente materiale[10], per quanto apprezzabile può risultare per certi versi fuorviante rispetto al cuore del quesito. Non sembra sufficiente, insomma, riconoscere che sul piano normativo il corpus delicti è concepibile pure in difetto di "corporeità", essendo conferito valore probatorio a elementi immateriali - quali i dati informatici - per giunta suscettivi di sequestro malgrado la connaturata evanescenza. Piuttosto, e a monte dell'intera questione, occorre verificare se davvero la registrazione di un colloquio che costituisce reato corrisponda alla nozione giuridica di corpo del reato (art. 253 comma 2 c.p.p.).
In estrema sintesi, registrare una dichiarazione significa memorizzarne i contenuti, creandone una rappresentazione che la rende riproducibile pro futuro. Orbene, al cospetto di attività illecita di captazione quella registrazione costituisce senza dubbio corpo del reato, trattandosi del prodotto della condotta criminosa che si sostanzia, ricorrendone i presupposti, nei reati di interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis c.p.), di cognizione illecita di comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche (art. 617 c.p.p.) o, ancora, di intercettazione illecita di comunicazioni informatiche o telematiche (art. 617-quater c.p.p.). Pacifico, in simili evenienze, l'utilizzo nel diverso procedimento quale corpo del reato e pure in assenza delle condizioni di cui all'art. 270 c.p.p.[11]
Viceversa, se registrare è in linea di principio lecito - come quando l'intercettazione è disposta dall'autorità giudiziaria nel contesto di un procedimento penale - mentre illecito è soltanto il contenuto della dichiarazione (rilevante, per restare alla casistica già nota, a titolo di favoreggiamento o di rivelazione di segreti), la sua registrazione non costituisce né l'oggetto né lo strumento né il prodotto della condotta criminosa; semmai, ne rappresenta la documentazione. Conseguentemente, per l'impiego nel diverso procedimento dovrebbero operare a pieno titoli i limiti dettati dall'art. 270 c.p.p.[12]
Le Sezioni unite, per vero, disattendono una ricostruzione siffatta argomentando dalla disposizione, più sopra richiamata, che preserva la documentazione delle intercettazioni illegittime e ne recupera l'utilizzabilità - in procedimenti diversi - allorché costituisca corpo del reato (art. 271 comma 3 c.p.p.). Come detto, soprattutto in virtù della collocazione sistematica e degli specifici contenuti, la previsione fornirebbe riprova all'assunto per cui la documentazione delle intercettazioni può costituire corpo di reato non soltanto a causa della matrice illecita, ma proprio in ragione del contenuto dichiarativo o comunicativo.
E' anche vero, però, che la littera legis parrebbe invece suggerire esegesi più restrittive. La deroga alla distruzione, sempre secondo la definizione normativa, riguarda infatti la sola «documentazione», a condizione che questa sia corpo del reato. L'attenzione, qui, sembra cioè appuntarsi sul contenitore, senza alcun espresso riferimento al contenuto. E allora, se ciò che interessa preservare quale corpus delicti è essenzialmente la documentazione-contenitore, sembra plausibile che questa rilevi nella misura in cui la condotta criminosa stia tutta nella registrazione (captazione-reato) e non nel contenuto della dichiarazione registrata (captazione di un colloquio che costituisce reato).
Ad ogni modo, anche a prescindere da siffatti rilievi, residua comunque la sensazione che la diversa soluzione propugnata dalle Sezioni unite, nel ritenere che la registrazione di un colloquio che costituisce reato sia corpo del reato, finisca per eludere con eccessiva disinvoltura il regime cui dovrebbe soggiacere il "travaso" dei contenuti delle intercettazioni da un procedimento ad un altro (art. 270 c.p.p.)[13].
I limiti, qui, sembrano infatti dettati per impedire la circolazione indiscriminata dei risultati delle captazioni; di talché, in una sorta di bilanciamento con il contrapposto interesse a non disperdere risultati probatori acquisiti in altra sede, i colloqui intercettati nel procedimento a quo assumeranno valore nel procedimento ad quem solo e soltanto se indispensabili per accertare delitti di gravità tale da rendere obbligatorio l'arresto in flagranza e sempre che le parti del procedimento diverso siano poste nelle condizioni di esercitare le facoltà connesse alla garanzia del contraddittorio nella genesi della prova (art. 270 commi 2 e 3 c.p.p.). Viceversa, obliterare tali condizioni sul presupposto - opinabile - che la registrazione di un colloquio che costituisce reato è corpo di reato, come tale acquisibile e utilizzabile nel processo, significa celare dietro un semplice passe-partout un pericoloso grimaldello, e forzare quel recinto di utilizzabilità che soltanto il rispetto delle garanzie di legalità e contraddittorio consentirebbero di aprire.
[1] L'ordinanza di rimessione (Cass., sez. I, ord. 30 ottobre 2013, n. 13388, Floris e al.) è pubblicata in questa Rivista, 27 giugno 2014.
[2] In via preliminare, la sentenza in commento si premura opportunamente di precisare che le disposizioni del codice di procedura penale, salvo che la legge disponga diversamente, si osservano anche per i procedimenti davanti ai tribunali militari (art. 261 cod. pen. mil. pace).
[3] V. Cass. pen., sez. VI, 7 maggio 1993, n. 8670, Olivieri; Cass. pen., sez. VI, 27 marzo 2001, n. 14345, Cugnetto; Cass. pen., sez. VI, 21 febbraio 2003, n. 15729, Di Canosa; Cass. pen., sez. VI, 18 dicembre 2007, n. 5141, Cincavalli; Cass. pen., sez. VI, 29 novembre 2911, n. 13166, Alessio; Cass. pen., sez. VI, 17 luglio 2012, n. 32957, Salierno.
[4] V. Cass. pen., sez. VI, 24 maggio 2005, n. 25128, Tortu.
[5] V. Cass. pen., sez. VI, 5 aprile 2001, n. 33187, Ruggiero; Cass. pen., sez. V, 25 gennaio 2011, n. 10166, Fiori.
[6] Secondo l'insegnamento espresso da C. Cost., 11 luglio 1991, n. 366, pronuncia all'uopo richiamata dalla sentenza in commento.
[7] Sul punto, v. N. Galantini, L'inutilizzabilità della prova nel processo penale, Padova, 1992, p. 420; A. Laronga, La prova documentale nel processo penale, Torino, 2004, p. 55 e s.; G. Ubertis, Variazioni sul tema dei documenti, in Cass. pen., 1992, p. 2519.
[8] Per l'individuazione del fil rouge che lega le previsioni in materia di interazioni tra corpo del reato e, rispettivamente, documenti (artt. 235 e 240 c.p.p.), garanzie di libertà del difensore (art. 103 commi 2 e 6 c.p.p.) e intercettazioni (art. 271 comma 3 c.p.p.), v. anche A. Laronga, La prova documentale nel processo penale, cit., p. 55.
[9] Naturalmente, non si tratta di sanare captazioni viziate per recuperarne l'uso probatorio nella sede d'origine, poiché quelle risultanze, rispetto al reato oggetto del procedimento a quo, non integrano certo il corpus. Lo sono, piuttosto, rispetto al reato oggetto del procedimento ad quem e soltanto ai fini di accertare quell'illecito, di cui costituiscono il prodotto, divengono utilizzabili. Diversamente opinando, si perverrebbe al paradosso per cui "una norma posta in funzione di garanzia dei diritti dell'imputato si ritorcerebbe contro di lui, risolvendosi in un pretesto per far valere come prova intercettazioni illegittime e, al contempo, illecite" (così, A. Camon, Le intercettazioni nel processo penale, Milano, 1996, p. 262).
[10] Con l'affermarsi di oggettività giuridiche esse stesse immateriali e meritevoli di tutela e con l'avvento, al contempo, delle più recenti forme di aggressione a beni, materiali o meno, ancor più insidiose proprio per la loro manifestazione "evanescente", è innegabile la progressiva "dematerializzazione" di categorie dogmatiche tradizionalmente tangibili e la prova informatica - cui la sentenza in commento opera un richiamo indiretto - ne costituisce uno degli esempi più vistosi. In argomento, merita segnalare che l'attività investigativa di raccolta delle c.d. evidenze elettroniche ha trovato recente collocazione nel codice di rito attraverso i molteplici innesti operati dalla l. 18 marzo 2008, n. 48, di ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla criminalità informatica (Budapest, 23 novembre 2001). Per un commento organico dei profili sostanziali e processuali della legge cybercrime, v. Aa. Vv., sistema penale e criminalità informatica, a cura di L. Luparia, Milano, 2009.
[11] In questi termini, proprio con specifico riferimento alle ipotesi di intercettazioni illegittime e al contempo illecite - cioè prodotto dei reati di interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis c.p.), di cognizione illecita di comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche (art. 617 c.p.p.) o di intercettazione illecita di comunicazioni informatiche o telematiche (art. 617-quater c.p.p.), che non prevedono l'arresto obbligatorio in flagranza e non soddisfano dunque le condizioni prescritte dall'art. 270 c.p.p. - v. A. Camon, Le intercettazioni nel processo penale, cit., p. 262. Nella medesima direzione, v. Cass. pen., sez. V, 25 gennaio 2011, n. 10166, cit.
[12] Era questa l'impostazione delineata nelle due pronunce appartenenti all'orientamento "minoritario", secondo cui: "(...) anche quando le registrazioni non rappresentano una conversazione su circostanze relative al fatto reato per cui siano state disposte, ma una comunicazione che integra essa stessa condotta criminosa, la loro acquisizione è soggetta alle disposizioni stabilite dall'art. 270 c.p.p. e non va inquadrata nelle norme che regolano l'uso processuale del corpo di reato, giacché la registrazione costituisce in ogni caso un mezzo di documentazione della comunicazione e non è definibile cosa sulla quale o mediante la quale il reato è stato commesso" (Cass. pen., sez. VI, 5 aprile 2001, n. 33187, cit.); e ancora: "Per quanto dunque il concetto di "corpo del reato" sia esteso e la sua funzione probatoria risulti accentuata dalla tecnologia, non è possibile confonderlo con l'oggetto materiale che, per sé lecitamente, documenta il fatto costitutivo di reato" (Cass. pen., sez. V, 25 gennaio 2011, n. 10166, cit., in motivazione). In dottrina, condivide siffatta impostazione F. Focardi, sub art. 235 c.p.p., in Aa. Vv., Codice di procedura penale commentato, a cura di A. Giarda e G. Spangher, Milano, 2010, p. 2372. Nella medesima direzione, v. anche A. Camon, Le intercettazioni nel processo penale, cit., p. 262, n. 170, per il quale è infatti discutibile la diversa soluzione che identifica la registrazione del colloquio che costituisce reato con il corpo di reato.
[13] Per una disamina approfondita della ratio sottesa al divieto di utilizzare in altri procedimenti i risultati delle intercettazioni, se non entro i limiti strettamente fissati dal legislatore, v. A. Camon, Le intercettazioni nel processo penale, cit., p. 271. Per un riepilogo delle posizioni espresse da giurisprudenza e dottrina sul punto, v. anche L. Filippi, sub art. 270 c.p.p., in Codice di procedura penale commentato, cit., p. 2736.