ISSN 2039-1676


25 settembre 2014 |

Alle Sezioni Unite la questione relativa ai poteri del giudice dell'esecuzione in merito all'erronea od omessa applicazione della pena accessoria irrogata nel definito giudizio di cognizione

Cass. pen., Sez. I, ord. 9 aprile 2014 (dep. 22 luglio 2014), n. 32405, Pres. Cortese, Rel. Tardio

 

1. Con l'ordinanza in esame la prima Sezione della Corte di Cassazione rimette alle Sezioni Unite, ai sensi dell'art. 618 c.p.p., la seguente questione di diritto: "Se l'erronea o omessa applicazione da parte del giudice di cognizione di una pena accessoria predeterminata per legge nella specie e nella durata o l'applicazione da parte del medesimo giudice, previa delimitazione del principio di legalità della pena in rapporto al giudicato e alla sua applicazione in sede esecutiva, di una pena accessoria 'extra' o 'contra legem', possano essere rilevate, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell'esecuzione".

Tale questione, lungamente dibattuta ed oggetto di un attuale contrasto giurisprudenziale, necessita, indubbiamente, di un'immediata definizione. La soluzione di tale antinomia, infatti, ha dirette ripercussioni sulla possibilità, attraverso il rimedio dell'incidente di esecuzione, di correggere, eliminare o rideterminare pene accessorie irrogate con sentenze divenute irrevocabili.

 

2. Nel caso di specie il ricorrente veniva condannato in giudizio abbreviato dal G.u.p. del Tribunale di Roma alla pena di anni tre di reclusione con interdizione perpetua dai pubblici uffici, per i delitti di cui agli artt. 609 bis, 317 e 527 c.p.

Con successiva ordinanza il G.i.p. del Tribunale di Roma, in funzione di giudice dell'esecuzione, rigettava l'istanza del ricorrente volta alla correzione, eliminazione o rideterminazione della pena accessoria inflittagli: quest'ultimo lamentava, infatti, l'erronea applicazione della pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici in luogo di quella temporanea. Tra le principali ragioni a fondamento dell'ordinanza di rigetto emergeva la considerazione secondo cui l'intervento sulla pena accessoria in sede esecutiva supponeva la predeterminazione per legge della stessa nella specie e nella durata. Secondo il giudice adito la pronuncia in sede esecutiva si sarebbe trasformata,  altrimenti, in un giudizio di merito sulla legittimità della pena accessoria applicata, giudizio del tutto omesso nella sentenza divenuta irrevocabile[1].

Avverso l'ordinanza di rigetto l'istante, per mezzo del suo difensore, proponeva ricorso per Cassazione adducendo come motivo l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale, con riferimento agli artt. 1, 81, 317 bis, 37 e 28 c.p., e la contradditorietà e manifesta illogicità della motivazione. Secondo la tesi del ricorrente, infatti, l'applicazione della pena accessoria, non predeterminata nell'entità, doveva ritenersi ammissibile anche in executivis, con riguardo, per la determinazione della stessa, alla durata della pena principale, entro i limiti di cui all'art. 28, comma 4, c.p. A sostegno di tale posizione il ricorrente si richiamava al principio di legalità della pena ex art. 1 c.p. applicabile, secondo una parte della giurisprudenza, anche alla pena accessoria, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza e, in presenza di pena illegittima, anche in sede di esecuzione[2].

 

3. La questione in esame, correlata al tema della legalità della pena, principale e accessoria, e a quello dei limiti dell'indagine affidata in sede di incidente di esecuzione al giudice, rispecchia la sussistenza di differenti orientamenti interpretativi[3].

Secondo un primo filone giurisprudenziale, più volte accolto dalla Corte e già esistente nel vigore del previgente codice di rito penale[4], l'irrogazione di una pena illegittima è rilevabile anche in executivis. L'erronea applicazione, da parte del giudice di cognizione, della pena accessoria predeterminata nell'an e nel quantum legittima, dunque, l'intervento correttivo del giudice dell'esecuzione anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza[5]. Nell'ammettere, in sede esecutiva, la correzione di eventuali errori materiali presenti nella sentenza irrogata nel definito giudizio di cognizione, la giurisprudenza così orientata ribadisce la propria posizione "tenuto conto, da un lato, della portata generale della previsione contenuta nell'art. 1 c.p. e, dall'altro, dell'assoluto automatismo nell'applicazione delle pene accessorie predeterminate per legge sia nella specie che nella durata e sottratte, perciò, alla valutazione discrezionale del giudice, sicché l'eventuale pronunzia del giudice dell'esecuzione non può essere considerata una modifica sostanziale della decisione adottata all'esito del giudizio di cognizione passata in giudicato"[6].

Due le ragioni principali su cui si fonda tale indirizzo interpretativo: in primo luogo la valenza costituzionale dello statuto della pena accessoria, ex art. 25 Cost., impone un'interpretazione costituzionalmente orientata che sacrifichi le ragioni sottese al giudicato in favore della correzione della pena illegittima anche in sede esecutiva. Inoltre, il contenuto della disposizione di cui all'art. 183 disp. att. c.p.p., che autorizza, nel caso non si sia provveduto con la sentenza di condanna, all'applicazione in executivis della pena accessoria, mal si concilierebbe con l'opposta interpretazione restrittiva "restando del tutto illogico che non vi sia strumento per rimediare, nella stessa sede esecutiva ed alle stesse condizioni, pro reo, quando, come recita l'anzidetto art. 183, la pena accessoria consegue di diritto"[7].

L'opposto orientamento giurisprudenziale, al contrario, ritiene non deducibile, attraverso il rimedio dell'incidente di esecuzione, l'erronea applicazione della pena accessoria irrogata con sentenza di condanna dal giudice di cognizione. La giurisprudenza così orientata, infatti, ammette la correzione della pena accessoria errata esclusivamente nel giudizio di cognizione attraverso il rimedio dell'impugnazione e ciò, come precisa la Corte, perché "la eliminazione della pena accessoria non può infatti rientrare fra le ipotesi di correzione di errori materiali che possono essere corretti con la procedura di cui all'art. 130 c.p.p. poiché si tratterebbe eventualmente di un vero e proprio errore di giudizio la cui emenda comporterebbe una inammissibile modifica del contenuto sostanziale della decisione, in assenza comunque di una previsione di legge in tal senso"[8].

Tale indirizzo interpretativo ritiene, pertanto, che l'applicazione del principio di legalità della pena, operante indubbiamente anche in sede esecutiva, non legittimi di per sé un intervento in executivis sul giudicato, ammissibile solamente in ipotesi eccezionali espressamente previste dal legislatore e, dunque, non passibile di applicazione analogica.

 

4. Tale esistente contrasto legittima, pertanto, la rimessione della questione alle Sezioni Unite. La tematica in esame, infatti, si inserisce in un più ampio dibattito avente ad oggetto il contenuto e l'ambito di applicazione del principio di legalità della pena in ambito esecutivo.

Se inizialmente la rilevabilità, anche in sede esecutiva, della sanzione illegittima veniva ammessa grazie alla categoria dell'inesistenza[9], giurisprudenza più recente giustifica tale intervento rifacendosi proprio al principio enunciato dall'art. 1 c.p. ed implicitamente dall'art. 25, comma 2 della Carta costituzionale. È opinione più volte ribadita dalla Corte, infatti, che il principio di legalità della pena, fondamento di tutto il sistema penale, permei non soltanto la fase di cognizione, ma operi anche in sede esecutiva, con la diretta conseguenza di ammettere anche in tale fase la rilevabilità della pena illegittima, perché non prevista dall'ordinamento giuridico o perché eccedente per specie o quantità il limite dettato dal legislatore[10].

Sul punto la Corte, in un'importante pronuncia, sottolinea come il principio della legalità della pena operi "anche con riguardo alle pene accessorie, per cui anche l'eventuale applicazione illegale di tali pene, avvenuta in sede di cognizione, può essere rilevata, così come si verifica per le altre, in sede di esecuzione, con adozione dei conseguenti provvedimenti". Pertanto, continua la Corte, "il concetto di legalità non può restringersi al caso di applicazione di una pena in astratto non prevista dall'ordinamento - per esempio la pena di morte - ma attiene ad ogni caso di irrogazione di una pena non prevista, per specie o entità, dalla norma ritenuta applicabile, ed altresì al caso che quest'ultima sia in realtà inesistente o inapplicabile in relazione al tempo del commesso reato"[11].

Alla luce dei differenti orientamenti giurisprudenziali sinteticamente descritti si attende la pronuncia delle Sezioni Unite, chiamate, in definitiva, a dirimere un contrasto che investe, ancora una volta, uno dei principi cardine del nostro sistema penale e, in particolare, i limiti della sua operatività con riguardo alle pene accessorie in sede esecutiva.

 

 


[1] Nel caso di specie il G.u.p. del Tribunale di Roma condannava il ricorrente, per il reato di cui all'art. 609 bis c.p. (individuato come reato base) ad una pena inferiore a tre anni di reclusione che non consentiva, pertanto, l'applicazione della pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici di cui al primo comma dell'art. 29 c.p. L'omessa determinazione, inoltre, della pena principale da irrogarsi per il reato di cui all'art. 317 c.p. non permetteva di stabilire in astratto la durata della pena accessoria né di parametrarla alla pena principale.

[2] Cfr. Cass. pen., Sez. II, 22 gennaio 1988, n. 595; Cass. pen., Sez. II, 13 novembre 1996, n. 4492; Cass. pen., Sez. V, 29 aprile 1985, n. 809.

[3] Tali differenti interpretazioni hanno formato oggetto di segnalazione da parte dell'Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione. Si vedano: relazione 15 dicembre 2010, n. 48 e relazione 8 aprile 2013, n. 15.

[4] Cfr. Cass. pen., Sez. III, 10 novembre 1965, n. 3886; Cass. pen., Sez. VI, 9 marzo 1968, n. 424; Cass. pen., Sez. V, 24 gennaio 1984, n. 210; Cass. pen., Sez. V, 21 febbraio 1984, n. 573; Cass. pen., Sez. V, 29 aprile 1985, n. 804.

[5] Per le ipotesi di omessa applicazione di pene accessorie che conseguano "ex lege" alla pronuncia di condanna si vedano: Cass. pen., Sez. I, 28 aprile 2004, n. 23196 e Cass. pen., Sez. I, 10 novembre 2004, n. 45381. In particolare, quando alla condanna consegue di diritto una pena accessoria predeterminata dalla legge il P.M., laddove il giudice di cognizione abbia omesso di provvedere,  ne può chiedere l'applicazione in sede esecutiva, senza che tale omissione determini la nullità della sentenza.

[6] Cfr. Cass. pen., Sez. I, 30 novembre 2011, n. 1800. Sul punto si veda anche: Cass. pen., Sez. I, 30 gennaio 2013, n. 7346, con cui il Collegio aderisce all'orientamento giurisprudenziale dominante secondo cui può porsi rimedio in sede esecutiva agli errori commessi nel giudizio di cognizione attinenti all'irrogazione delle pene accessorie predeterminate per legge nel tipo e nella durata senza che ciò comporti l'attribuzione di un ruolo di discrezionalità al giudice dell'esecuzione.

[7] Cfr. Cass. pen., Sez. I, 13 ottobre 2010, n. 38245. In modo conforme si sono espresse successive decisioni: Cass. pen., Sez. I, 17 ottobre 2012, n. 43085 e Cass. pen., Sez. IV, 12 dicembre 2012, n. 49236.

[8] Cfr. Cass, pen., Sez. I, 20 marzo 2007, n. 14007; Cass. pen., Sez. I, 19 febbraio 2009, n. 14827. Sul punto si veda anche: Cass. pen., Sez. I, 10 maggio 2011, n. 33086.

[9] Cfr. Cass. pen., Sez. I, 25 giugno 1982, n. 1436.

[10] Cfr. Cass. pen., 23 gennaio 2013, n. 38712. Così come precisato da Cass. pen., Sez V, 29 aprile 1985, n. 809 e poi ribadito da Cass. pen., Sez. I, 23 gennaio 2013, n. 38712 "Tale principio, che vale sia per le pene detentive sia per le pene pecuniarie, vieta che una pena che non trovi fondamento in una norma di legge, anche se inflitta con sentenza non più soggetta ad impugnazione ordinaria, possa avere esecuzione, essendo avulsa da una pretesa punitiva dello Stato".

[11] Cfr. Cass. pen., Sez. I, 25 febbraio 2005, n. 9456.